La famigerata – non per sue colpe – Corazzata Potemkin (ebbene sì, proprio lei) ha appena compiuto la bellezza di novant’anni. Il film più famoso della storia (qualcuno dice), il più studiato e citato del maestro delle avanguardie russe e teorico del cinema Sergej M. Ejzenstejn (1898-1948) venne infatti proiettato la prima volta la Teatro Bol’soj di Mosca il 21 dicembre del 1925. In questi novant’anni il Cinema ha percorso molte strade e cambiato pelle varie volte, calcato territori noti ed esplorato nuovi scenari, ha visto nascere e morire mille mode e cento movimenti, indirizzato in questo suo peregrinare estetico e poetico anche dalle riflessioni di Ejzenstejn sulla valenza non solo narrativa del montaggio cinematografico.
Gli studi in tale ambito dell’autore della Corazzata, fra i più appassionati e seri di sempre, furono di notevole importanza. A lui si deve la messa a punto del montaggio delle attrazioni, che trova la prima piena applicazione proprio nella Corazzata, del montaggio per allegoria e di quello per analogia, dell’uso di primi piani shoccanti – come un “pugno in un occhio” – per svegliare lo spettatore e indurlo a ragionare per associazione di idee dall’associazione di immagini.
In uno scritto del 1929 sostenne che il cinema può rappresentare anche concetti astratti e non solo fatti concreti, mimetici del reale, e può allora essere uno strumento di riflessione filosofica come lo è un testo scritto, idea non del tutto scontata in quegli anni, di evidente portata cosmica per l’universo-cinema. Poi teorizzò la drammaturgia della forma: il film deve essere costruito su innumerevoli contrasti e conflitti creatori di senso non solo per il contenuto (per esempio, i buoni vs. i cattivi), ma anche e soprattutto nella forma: destra contro sinistra (dell’immagine), vicino contro lontano, grande contro piccolo, singolo contro massa, largo contro stretto, deserto contro affollato, chiaro contro curo, antinomia – questa – che nel film a colori può dar luogo a infinite coppie, per altrettanto infinite sfumature di significato (solo per curiosità: date una breve occhiata al film del 1973 di Ingmar Bergman Sussurri e Grida). E questo per dare solo un assaggio delle riflessioni teoriche di Ejzenstejn, delle quali è oggi evidente l’influenza sul lavoro di tanti autori a lui successivi.
La Corazzata Potemkin venne concepita in tale ambito teorico anche in quanto cinema ideologico, non nel senso di una propaganda del comunismo o di altra ideologia, ma nel senso delle grandi idee, cioè come film basato su una rivisitazione poetica della Storia e non su una normale storia privata, seppur ben narrata secondo i codici del racconto per immagini. Infatti, la Corazzata riporta, in forma narrativo-poetica, un episodio della fallita rivoluzione del 1905: l’ammutinamento dell’equipaggio della corazzata del titolo, ancorata nel porto di Odessa, e la conseguente repressione dei soldati cosacchi, che spararono sulla folla radunata sulla celebre scalinata in segno di solidarietà con i marinai della Potemkin.
Ciò che caratterizza tutte le avanguardie artistiche dell’Europa dei primi decenni del Novecento è la rottura delle convenzioni linguistiche del passato. Alcune di esse davano anche valenza borghese a tali codici linguistici, e quindi spirito antiborghese alla loro sovversione. La cattiva fama del film di Ejzenstejn presso il grande pubblico, che lo bolla di opera di nicchia da intellettuali, pesante e difficile da capire, è allora semplicemente spiegabile: l’autore, poiché avanguardista, coscientemente trasgredisce al primo comandamento del cinema narrativo classico (anche in quanto codice borghese): la sua chiara leggibilità per ogni spettatore. Se pure è comprensibile e condivisibile l’amore del grande pubblico per un cinema di intrattenimento più facile (ma non dicasi facilone), il film di Ejzenstejn che oggi ricordiamo rimane comunque un assoluto capolavoro d’arte cinematografica, una delle sue rare pietre miliari.
In tema di faciloneria, il Corriere del 21 dicembre scorso contiene una pagina a memoria dei novant’anni delPotemkin, comprendente un articolo di Paolo Villaggio. Visto il livello dello stesso, sono qui costretto a darne conto e stupirmi, almeno un poco, che un tale scritto compaia nella pagina (supposta) culturale del più antico quotidiano d’Italia. Il crogiuolo di inesattezze e luoghi comuni da bar sport (e nel paragone faccio un torto al bar sport) che l’articolo contiene è a dir poco imbarazzante. Solo per citarne un paio: il cinema d’autore come genere non esiste; la durata dei film del tipo Corazzata Potemkin (che nella versione italiana dura cinquanta minuti) è tanto se va oltre gli ottanta minuti (Nosferatu 63 minuti, il Caligari 78 minuti, Dies Irae 105 minuti, Vampyr 70 minuti, Un Chien Andalou 16 minuti, l’Uomo con la Macchina da Presa 87 minuti, La Terra 75 minuti), mentre è il prototipo delfeuilleton hollywoodiano – comunque magnifico – a durare parecchio (Nascita di Una Nazione 165 minuti, Intolerance210 minuti, Il Ladro di Bagdad 140 minuti, Via col Vento 222 minuti).
Non so sinceramente quanti ancora siano interessati e si divertano a simil prosa; ricordiamo invece che la sequenza de Il Secondo Tragico Fantozzi (1976) nella quale lo stesso Fantozzi sbeffeggiava il Potemkin era di alto livello, seppure nel suo genere grottesco e iperbolico. Per non dire di quella appena precedente nello stesso film; quell’intelligente lavoro sul fuori campo (la radiocronaca della partita persa dal Fantozzi perché obbligato al cineforum aziendale) nella scena in cui l’ineffabile ragioniere, disperato, si reca in auto su strade deserte, con la Pina e la figlia, alla proiezione imposta dal dirigente cinefilo. Se non ci fossero stati i pionieri della settima arte, tra i quali il maestro Sergeij M. Eizenstain, anche il caro Fantozzi non avrebbe potuto fare quel riuscitissimo – come tanti altri -pezzo di cinema, che giustamente è entrato nell’immaginario cinematografico di sempre con lo stesso diritto di cittadinanza di un’opera immensa come La Corazzata Potemkin.