La sera di Capodanno di cinquant’anni fa usciva negli Stati Uniti Il Dottor Zivago, trasposizione cinematografica del travagliato capolavoro che valse, nel 1958, al poeta e romanziere russo Boris Pasternak (1890-1960) il premio Nobel per la letteratura. Il film, pur essendo un melodramma hollywoodiano scontato e a tratti melenso, rispetta in buona misura il tracciato narrativo del romanzo, non tralasciando nessuno dei suoi episodi fondamentali. Dubbi invece si debbono avanzare sul taglio complessivo del film, che privilegia la questione sentimentale tra i due protagonisti a scapito degli altri aspetti tematici del romanzo, quelli che toccano con maestria le vicende della Storia russa tra la rivoluzione bolscevica, la seguente guerra civile e poi il tradimento degli ideali socialisti avutosi con l’avvento dello stalinismo. 

Di questo apparato di intrecci tra vicende private ed eventi storici, che costò a Pasternak l’ostracismo dei vertici Urss di allora (il romanzo vide le stampe, clandestinamente, solo nel 1957 in Italia, pubblicato da Feltrinelli), il film mantiene perlomeno l’assunto di base, incarnato dalla figlia avuta da Lara in oriente dopo la separazione forzata da Zivago, figura che appare nell’incipit prima del lungo flashback che occupa l’intero film. Questa, operaia sovietica che non ha mai conosciuto il padre e si ricorda vagamente della madre, rappresenta infatti una chiara metafora dell’Urss del Secondo dopoguerra, ormai in pieno regime comunista, che pare aver perso ogni memoria del grande Paese, in termini culturali, artistici e umani, che è stato ai tempi degli zar. Ma in cinema questo aspetto emerge un po’ debole, viene forse riconosciuto solo da chi già ne conosce la caratterizzazione dal romanzo; il solo film non ne da sufficiente rilievo. 

Anche la nostalgia per un’esistenza diversa, altro elemento chiave del romanzo (emblema del diverso contesto sociale in cui lo stesso Pasternak avrebbe voluto vivere), nel film risulta un po’ stereotipata, limitata – come già evidenziato – alla storia d’amore e non declinata negli altri ambiti della faticata esistenza del dottore poeta Jurij Zivago. 

La messa in scena risulta invece molto valida nelle sequenze di massa e nei campi lunghi sulle grandi pianure, immutabili scenari della grande Storia. Sono così ben evidenziati i temi del soggetto che più si avvicinano alla poetica del regista, il britannico David Lean: la commistione di sensibilità, idealismo e amor proprio del protagonista; il disegnarsi di una vicenda privata tra gli eventi della Storia, cui gli esseri umani sono incapaci tanto di adattarsi quanto di sottrarsi. 

Nonostante gli evidenziati limiti, con Zivago abbiamo comunque a che fare con uno dei film più visti di ogni tempo. Sono infatti a buon diritto entrate nella hall of fame della storia del cinema alcune delle sue scene cardine, anche se funzionali più allo spirito del kolossal che a quello del soggetto emergente dal romanzo. Ricordiamo soprattutto quella dello shock in tram che causa la morte di Zivago, povero e solo nella Mosca degli anni Trenta – che si merita anche una citazione in Palombella Rossa di Nanni Moretti (1989) – e quella del distacco, quando Lara parte per l’oriente in slitta, sulla steppa ai piedi degli Urali coperta di neve a perdita d’occhio, salutata dalle lacrime di Zivago sulle note del celebre “Tema di Lara” (motivo della nostalgia, opera del francese Maurice Jarre, per qualcuno più un tormentone che un capolavoro) che anticipano allo spettatore il finale melò della storia: i due innamorati non si incontreranno mai più. 

Nel romanzo invece la pagina più toccante è forse quella in cui Pasternak evoca la sorte misteriosa di Lara dopo la morte di Zivago, la sua dipartita verso un luogo remoto e sconosciuto; per fortuna sostituita, nel film, da un breve cenno nel racconto in flashback dell’ufficiale dell’Armata Rossa fratellastro di Zivago e voce narrante (non così nel romanzo). Una qualunque scena sarebbe stata inadeguata al lirismo del racconto. 

Nonostante per larghi tratti denoti tutti i difetti del polpettone hollywoodiano, Il Dottor Zivago rimane uno dei più grandi successi di pubblico della storia del cinema, che coincide anche con una delle sue più celebri love story, e come tale va oggi celebrato senza sterili snobismi. 

In presenza di tanto amore da parte di un così vasto pubblico, che pone il film di Lean nei primi dieci titoli più visti di sempre (a Roma rimase per la bellezza di seicento giorni nel programma di prima visione), non si può non riconoscere a tale opera una sua valenza di carattere assoluto, che va al di là dei dubbi espressi circa la sua qualità artistica (per così dire, semplificando). Cioè: la valutazione di quest’ultimo aspetto non può essere svolta a sé stante, separata dal fatto che un film ha come naturale destinatario il pubblico (indistinto), e quando esso ben risponde, alla stregua di un’ipnosi collettiva come fu per Zivago, allora si deve prenderne onestamente atto. 

Il cinema è anche quel mezzo narrativo e visivo che semplicemente risponde al bisogno di conforto emotivo e spettacolare del grande pubblico, nei termini di un intrattenimento piacevole, facile da capire e in cui si può trovare evasione e immedesimazione. Siccome nel 1965 ancora non eravamo nell’era del marketing come forgiatore di puri prodotti dell’industria (culturale) dell’intrattenimento mediatico, come accade da un ventennio a questa parte (per i quali prodotti il discorso è un po’ diverso), allora Il Dottor Zivago lo dobbiamo considerare, compiutamente, alla stregua di un capolavoro popolare. Inesorabile immortale potenza della settima arte.