Usciva quarant’anni (il 27 marzo 1975) fa il primo Fantozzi, film campione d’incassi per la regia di Luciano Salce tratto dalle due raccolte di racconti che Paolo Villaggio pubblicò – per Rizzoli – nei primi anni Settanta. Villaggio, noto fino a quel momento per la conduzione, assieme a Cochi e Renato, Ric e Gian e Gianni Agus, del programma tv cult “Quelli della Domenica” (1968), e in seguito per la mini-serie tv incentrata sul personaggio di Giandomenico Fracchia (1975), con questo film – e con il successivo Il secondo tragico Fantozzi, tratto dagli stessi racconti – diventa la principale novità italiana nel campo della comicità cinematografica del decennio, e la sua creatura, mostruosamente ordinaria, l’icona del perdente predestinato, commovente e indistruttibile.
Va detto subito, a scanso di penosi equivoci, che del filone fantozziano, stirato fino all’impresentabile dopo il felice esordio, sono degni di attenzione critica solamente i due film sopra citati; sagaci, ben sceneggiati e portatori di un linguaggio comico parzialmente nuovo, non a caso gli unici Fantozzi con Salce alla regia. Tutto il resto non è altro che becera cassetta, secondo un costume produttivo italico ormai consolidato. Pertanto i caratteri di contenuto e di forma espressiva (un indovinato mix di comicità visiva e commedia di costume) che qui si indagano, e i rimandi sociologici che queste opere comunque hanno, anche in via involontaria, sono da riferire solamente ai primi due film, anche laddove si fa ricadere il tutto genericamente sotto il nome proprio del personaggio, più spesso usato nella sua forma aggettivata. Le altre otto pellicole costruite sul protagonismo ipertrofico del personaggio Fantozzi, prodotte tra il 1980 e il 1999, hanno a loro volta un riflesso di tipo sociologico, ma solo come contro esempio: altro non fanno se non testimoniare la pochezza – di idee, produttiva, di regia, ecc. – che il cinema italiano conosce da diversi anni a questa parte.
I primi Fantozzi procedono per episodi narrativamente autonomi e omogenei, che altro non sono se non la messa in scena dei racconti comici e grotteschi di Paolo Villaggio, scritti a cominciare dal 1968 – ai tempi di “Quelli della Domenica” – e pubblicati successivamente nelle raccolte già ricordate. Il personaggio, da lui stesso interpretato, è goffo e maldestro, ipocrita e servile, cafone con i deboli e terrorizzato dai potenti, succube dei mass media e della pubblicità, che gli propinano modelli sociali che lui ostinatamente persegue senza mai raggiungere.
Sempre Villaggio, nelle chiose ai primi racconti, introduce il suo eroe con queste parole: “Fantozzi, come la maggioranza dell’umanità, non ha talento, e lo sa. Non si batte per vincere, né per perdere, ma per sopravvivere. […] La gente lo vede, ci si riconosce, ne ride, si sente meglio e continua a comportarsi come Fantozzi”. Poi, attorno all’ineffabile protagonista ruota una serie di personaggi emblematici, implacabili componenti del mondo aziendale fantozziano, vivace e grottesco campionario di tipi italici vari, interpretati da bravissimi caratteristi (Gigi Reder, alias rag. Filini, e Anna Mazzamauro su tutti) che hanno fortemente contribuito al successo dei film.
Il Villaggio autore è anche, mirabilmente, l’inventore di un lessico tutto particolare, iperbolico, in parte derivante dal taglio aziendale/burocratico del suo personaggio, ma soprattutto perfetto per metaforizzare la visione fantozziana del mondo, ricavata com’è dai gradini più bassi della scala sociale. Nasce allora con Fantozzi una nuova maschera, che ha il pregio di essere relativamente originale per il panorama italiano – anche se sono chiare le influenze letterarie, dal travet francese ai racconti di Gogol’ e Cechov – e che costituisce anche un tentativo, ben riuscito, di aggiornare le maschere tradizionali sul terreno del riflusso sociale che si è determinato dopo le illusioni del boom economico. Con Fantozzi, entra nel pantheon delle maschere della commedia italica la figura sociale che ancora mancava, tragicamente figlia dei tempi: quella dell’impiegato proletario che si crede piccolo borghese perché gliel’hanno fatto credere (e ci è cascato, poveraccio), e che senza successo tenta di comportarsi di conseguenza.
Sconfinando ora sul difficile terreno sociologico, paiono pertinenti alcune analisi di Pier Paolo Pasolini, quelle che evidenziavano come la società capitalistica dei consumi, democratica (ma di una falsa democrazia), ha la naturale tendenza a fagocitare, a omologare e ridurre a un nucleo di termini minimi e banali (in peggio, il cosiddetto trash) qualunque forma di arte, di letteratura, di espressione mediatica in genere, soprattutto se all’origine nate con tutt’altro spirito, quello critico nei confronti della società stessa. Questa supposta democrazia, la migliore veste giuridica del capitalismo dal punto di vista dei padroni, è in grado di fare ciò – sosteneva Pasolini – con sotterranea violenza e con un’efficacia assoluta, che era sconosciuta perfino al regime fascista. Vale a dire: nemmeno il fascismo era riuscito a omologare arte e cultura (facendone dei prodotti) allo stesso modo di come ci è riuscita la società dei consumi capitalistica, presupposta democratica.
La maschera Fantozzi, essendo anche una grande intuizione socio-economica, c’entra con tutto questo. Infatti, detto consumismo, ineluttabile, alla lunga ha fatto pure di Fantozzi un prodotto mediatico omologato, quindi un qualcosa di diverso dal suo genuino carattere originario, obbligandolo a tradire lo spirito feroce con cui è nato; lo troviamo alla fine pienamente fagocitato – quindi reso innocuo, alla stregua di una scimmiesca macchietta – dal piattume culturale che ha caratterizzato gli ultimi decenni.
Basti ricordare le ultime apparizioni di Fantozzi/Villaggio nei programmi tv della domenica pomeriggio, dove l’attore genovese, nei panni ormai beceri del suo celeberrimo personaggio, veniva costretto dalla situazione tv a ridurre quest’ultimo (e il proprio ruolo di comico, che un tempo fu di feroce rottura), alla stregua di un fantoccio da circo per bambini down (senza offesa), castrato e banalizzato all’inverosimile. Che scempio, che pena. Coraggio ragioniere, reagisca, siamo tutti con lei.