25 aprile 1940. Tre quarti di secolo, e neppure tra quelli più semplici da attraversare (di persona) e da raccontare (a chi ti sta intorno o ai posteri). Si pensi poi che questi settantacinque anni si sono condensati in una vita (praticamente) intera divisa tra palchi teatrali e set cinematografici… impressi su un volto che a stento pare trattenere due occhi da qualcuno (il critico Anthony Lane, nella recensione di Donnie Brasco sul “New Yorker” del 17 marzo 1997) accostati a quelli dei santi dipinti da El Greco; impigliati dentro un corpo spregiativamente definito quello di un “nanerottolo” (era infatti apostrofato come “that midget” dai produttori de Il Padrino, che non volevano saperne di averlo tra i piedi, imposto dal regista Francis Ford Coppola); sedimentati in una voce riconoscibile già dopo la prima sillaba emessa e arrochita dai due o tre pacchetti di sigarette fumati (un tempo) quotidianamente. Tutti elementi che – anche presi singolarmente – costituiscono una sorta di carta geografica degli ultimi quarant’anni (e passa) di cinema made in the Usa, i cui dettagli e valore avanzano in maniera direttamente proporzionale al trascorrere degli anni.
«Avrei voluto fare il giocatore di baseball, ovviamente, ma non ero abbastanza bravo. Non sapevo che cosa avrei fatto nella vita. Avevo una certa energia ed ero un bambino felice, anche se avevo qualche problema a scuola. Alle medie l’insegnante di arte drammatica ha scritto una lettera a mia madre in cui le raccomandava di incoraggiarmi. Recitavo La ballata del vecchio marinaio e leggevo la Bibbia all’auditorium. È stato allora che ho sentito per la prima volta il nome di Marlon Brando. Stavamo facendo una recita e qualcuno ha detto: “Ehi, Marlon Brando! Questo ragazzo recita come Marlon Brando”. Strano, no? Avrò avuto dodici anni. […] In realtà, il mio modello era James Dean. Sono cresciuto con il mito di James Dean. […] Era circondato da un senso di provvisorietà. Gioventù bruciata mi ha emozionato molto. Ricordi quel giubbino rosso? Tutti ne portavano uno simile. Mi piace quella battuta in cui dice più o meno così: “La vita può essere bellissima”».
Chi nel dicembre 1979 rispondeva così alla più classica delle domande («Che cosa avresti voluto fare da grande?») era Al(fredo James) Pacino, diventato una stella del cinema già con il suo terzo lungometraggio, recitando accanto al vero Marlon Brando nel ruolo del figlio Michael Corleone. Come quindi ripercorrere (certo arbitrariamente) una carriera dove il talento si è sposato fin da subito con il carisma, balenati ed emersi già a teatro fin dalla metà degli anni Sessanta (quindi anche all’alba della gloriosa stagione della New Hollywood), insieme a quelli di altri colleghi, “rottamatori” del divismo del tempo che fu e poi affermatisi quali esponenti di un rinnovato star system (pensiamo a Robert De Niro, Dustin Hoffman, Jack Nicholson e Robert Redford)? Ecco allora cinque personaggi per accennare ad altrettanti decenni (e aspetti) dell’attore Al Pacino.
“METODI”. Si parte con lo spaesato Sonny, coprotagonista – insieme all’amico Sal (John Cazale) – della rapina in banca “in diretta” di Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975, Sidney Lumet), film basato su di un reale fatto di cronaca avvenuto nell’agosto 1972. Ricorda l’attore: «Quando ho visto i giornalieri, dopo il primo giorno di riprese, ho pensato: È incredibile, non c’è nessuno sullo schermo. […] “Dobbiamo girare di nuovo queste scene”, ho detto. […] [P]oi me ne sono andato a casa. […] È stato importante avere visto i giornalieri del primo giorno di riprese perché era evidente che il personaggio, in quel modo, era privo di identità. Ci ho lavorato tutta la notte. Dovevo. Poi sono tornato sul set e così è nato il personaggio che tutti hanno visto».
ICONE. Proseguiamo con l’animalesco Tony Montana, il gangster le cui vertiginosa ascesa e sanguinosa caduta sono descritte in Scarface (1983, Brian De Palma), “drogato” – letteralmente – remake dell’omonimo classico datato 1932, firmato da Howard Hawks e prodotto da Howard Hughes. Un’opera quasi paradigmatica di quegli anni Ottanta, annunciati non a caso dalle allegoriche e smisurate visioni larger than life dell’amico Coppola (Apocalypse Now, 1979): pare di riuscire a intravedere negli occhi del Montana di Pacino schegge del divorante “malessere” distillato da quelli del Kurtz di Brando (ancora lui…).
GESTI. Ecco poi il modesto (ma l’interpretazione di Pacino è tutt’altro che modesta…) manovale della malavita newyorkese Benjamin “Lefty” Ruggiero, coprotagonista – con l’agente dell’FBI Joseph D. Pistone (Johnny Depp) – del già citato Donnie Brasco (1997, Mike Newell): «Ah, un’altra cosa. Se chiama Donnie, digli… digli che… se deve farlo qualcuno, sono contento che sia lui. Va bene?»; alla tv un documentario sulle iene che cacciano in branco e lui in giacca, camicia e cravatta, già pronto a uscire di casa per l’ultima volta; un saluto alla moglie e via a togliersi di dosso oggetti e valori (orologio, anello, accendino, chiavi di casa, contanti, portafoglio, catenina al collo)… a oggi ancora uno dei più dolenti (e commoventi) congedi che si possano ricordare su grande schermo.
DIVERSIVI. Dei non brillanti primi dieci anni del Duemila si menziona – tra e più di altri – il regista in crisi Viktor Taransky di S1m0ne (2001, Andrew Niccol), satira del mondo hollywoodiano che tocca i temi del rapporto anonimato/celebrità, realtà/illusione, successo/fallimento, con Pacino al suo primo vero ruolo da commedia brillante, anche se in effetti i suoi inizi erano stati da comico: «Il mio primo istinto era di far ridere. Eravamo un duo e ci esibivamo in piccole città. Ma io non avevo voglia di essere buffo ogni sera e quindi ho lasciato perdere».
SHAKESPEARE. In chiusura, un personaggio che ancora non c’è, se non nella testa e nel cuore – ormai pronti alla prova, dati età, esperienza e passione – del 75enne attore: la vecchia figura di sovrano – la cui maturità viene saggiata dalla tempesta e dalla follia – al centro del Re Lear, per molti il capolavoro del suo amatissimo Bardo, pellicola da anni annunciata per la regia di Michael Radford (che ha già diretto Pacino ne Il mercante di Venezia, 2004): si potrà quindi continuare a vederlo misurarsi con il «mistero delle cose / come se fossimo le spie degli Dei» (atto V, scena 3).
Come già diceva il rebel without a cause James Dean, «la vita può essere bellissima»: proprio come la lunga, grandissima carriera di due “santi” occhi della settima arte.