«Major Strasser has been shot… Round up the usual suspects!» «Il maggiore è stato ucciso… Fermate i soliti sospetti!» Una battuta incastonata in uno dei più celebri finali che la storia del cinema tramandi – quello di Casablanca (Michael Curtiz, 1943) – e finita più di cinquant’anni dopo nel titolo di una pellicola diventata un piccolo fenomeno di culto fin dalla sua uscita nel maggio di vent’anni fa, presentata fuori concorso alla 48ª edizione del Festival di Cannes, riscuotendo un inaspettato consenso di critica e di pubblico.
Si è di certo già intuito il riferimento all’originale e intelligente thriller I soliti sospetti (The Usual Suspects), secondo lungometraggio del newyorkese – sebbene californiano d’adozione, fin dagli anni dell’università – Bryan Singer (classe 1965), già salutato come un enfant prodige del cinema americano in occasione della sua opera prima –Public Access (1993) – e futuro regista dei primi due capitoli della saga degli X-Men (2000 e 2003), di Superman Returns (2006) e di Operazione Valchiria (2008).
L’inizio di un viaggio che, in poco meno di un anno, avrebbe poi condotto il film dalla Croisette fino alla losangelina notte degli Oscar, il 25 marzo 1996, durante la quale sarebbe stato gratificato con due importanti statuette, quelle per la migliore sceneggiatura originale – assegnata a Christopher McQuarrie – e per il migliore attore non protagonista – andata a Kevin Spacey, raffinato interprete teatrale allora presente sul grande schermo con l’altrettanto indelebile Seven (Se7en, David Fincher, 1995) e ancora oggi sugli scudi grazie a un altro “castello di carte”, stavolta televisivo (è il Frank Underwood di “House of Cards – Gli intrighi del potere”).
Dovendo far fronte a una misteriosa accusa di rapina a un camion carico di fucili smontati nel Queens, cinque dei più famosi ladri della East Coast finiscono stranamente coinvolti tutti insieme in un confronto all’americana e quindi trattenuti loro malgrado per un’intera notte dal Dipartimento di Polizia di New York. Anche se ancora non lo sanno, sono infatti le ignare pedine di un diabolico complotto architettato da uno spietato quanto invisibile genio del crimine di nome Keyser Söze, che affida loro una missione (con in palio un bel po’ di milioni di dollari) da svolgersi al molo di San Pedro, in California. L’unico vero problema è capire chi ne uscirà vivo (e sulle proprie gambe)…
Starving for wisdom era il titolo di un recentissimo contributo del due volte Premio Pulitzer e columnist del “New York Times” Nicholas Kristof, che prendeva le mosse da una citazione del biologo Edward Osborne Wilson («Siamo sommersi di informazioni, mentre abbiamo una gran fame di saggezza»): a suo modo, è anche il concetto al cuore – un fatto che lo rende tuttora affascinante (forse oggi anche più di ieri), comunque la pensassero i suoi detrattori di allora (anche italiani) – del film in questione, che a vent’anni di distanza rimane sia uno dei più coinvolgenti plot del cinema contemporaneo che una delle più riuscite riflessioni sull’atto della narrazione dell’arte cinematografica.
Al fondo del famoso tormentone «Chi è Keyser Söze?» sta infatti ciò che Giada Fioravanti così riassume in una recente monografia dedicata al regista: «In una società come quella in cui viviamo gran parte della nostra conoscenza è il frutto di una mediazione, la porzione di realtà che possiamo esperire direttamente è sempre più limitata a fronte del bacino di informazioni e versioni della realtà potenzialmente infinite offerte dai mezzi di comunicazione, che moltiplicano le visioni del mondo. […] Quella che si presenta davanti agli occhi dello spettatore de I soliti sospetti è una sfida: ricostruire la verità mettendo insieme le tessere del mosaico, proprio come farebbe un agente della polizia. […] Ma quello che né lo spettatore, né l’agente Kujan sanno è che si sono seduti al tavolo di un baro, che stanno giocando con un mazzo di carte truccato e che per loro non c’è nessuna possibilità di vincere la sfida. Perché […] la ragione, come spesso accade non solo al cinema, è di chi racconta la storia migliore. I soliti sospetti è un inganno che tradisce dichiaratamente il patto comunicativo tra narratore e spettatore, è un prestigio da illusionisti, è lo sguardo miope di chi invece di guardare la luna si sofferma sul dito che la indica e in questo sta il motivo del suo successo. […] Verbal è la normalizzazione di Keyser Söze, […] il costume che Singer fa indossare a Roger […], il narratore di questa storia e come un dio, o un demonio, è onnisciente quindi vede e sa ogni cosa: esattamente come Singer».
Dunque un’opera che si potrebbe anche definire, per così dire, un folgorante selfie sul mestiere di regista, scattato da un trentenne di talento a metà degli anni Novanta, passando senza alcun timore dall’oraziano de te fabula narratur al singeriano de me fabula narratur. Non è quindi un caso che il programma del Festival di Cannes attualmente in corso lo riproponga – tra non pochi altri titoli del passato più o meno recente – nell’ambito della sezione “Cinéma de la plage”, che consente al pubblico di potersi (ri)gustare pellicole (anche restaurate) direttamente sulla spiaggia della Croisette.