Un congedo rivolto direttamente allo spettatore, dall’angolo di uno scatenatissimo banchetto di nozze, su un isolotto di terra galleggiante in mezzo a un fiume: «In questo posto abbiamo costruito nuove case con i tetti rossi e i comignoli su cui faranno il nido le cicogne e con le porte sempre aperte agli ospiti. Saremo grati alla nuova terra che ci nutre e al sole che ci riscalda, ai campi fioriti che ricordano i cilim [tappeti, ndr] colorati della nostra patria. Con dolore, con tristezza e con gioia ricorderemo la nostra terra, quando racconteremo ai nostri figli storie che cominciano come le fiabe. C’era una volta un Paese…»

Da dove ha preso le mosse (la didascalia iniziale «Bila jednom jedna zemlja…»), lì anche termina Underground (1995), una lunga favola moderna (la durata delle sette diverse versioni è passata da 340 a 167 minuti), anarchica e surreale; un film ancora oggi ricordato come il titolo decisamente più “politico” del proprio autore, Emir Kusturica (1954); un’unica, continua metafora che ricapitola a suo modo la storia jugoslava (dalla Seconda guerra mondiale al conflitto nei Balcani) e proprio per questo totalmente fraintesa e identicamente odiata da serbi, bosniaci e croati.

Una pellicola che – presentata in concorso vent’anni fa sotto i colori della Comunità Europea nell’ambito della 48ª edizione del Festival di Cannes – si vide assegnare la Palma d’oro, consacrando così anche a livello mondiale il suo regista – nativo di Sarajevo, di famiglia musulmana, poi brillante studente all’Accademia del Cinema di Praga (Famu) e infine autore già premiato a Venezia (1981 e 1998), Cannes (1985 e 1989) e Berlino (1993) – che l’aveva girato con la propria troupe lungo ben diciassette mesi di riprese (dall’ottobre 1993 al febbraio 1995) tra Praga, Berlino, Sofia e Belgrado.

Nel suo romanzo autobiografico tra vita, letteratura e cinema (“Dove sono in questa storia”, ovvero il «diario politico di un idiota», come lo definisce l’autore medesimo), Kusturica ricorda come «l’aneddoto su un gruppo di persone che ritenevano che la Seconda guerra mondiale non fosse mai finita fosse in realtà uno scherzo ben piccolo rispetto alla menzogna in cui vive il mondo contemporaneo. Quel film fu costruito al rovescio, dalla fine verso l’inizio. Per prima cosa seppi come sarebbe andato a finire, e poi come sarebbe cominciato. Pensai di girare un matrimonio su un’isola fluviale. […] Sarebbe stato l’epilogo del dramma […]. I personaggi sopravvissuti avrebbero fatto festa, io avrei usato nuovamente un mio stereotipo e poi lo avrei distrutto in un modo tutto nuovo. Avrei fatto in modo che la terra si spaccasse, che si aprisse una fessura proprio accanto alla tavolata delle nozze, che la corrente trascinasse lungo il fiume l’isoletta di terra con tutti gli invitati, all’oscuro di ciò che stava avvenendo. Li avrei lasciati saltare sui tavoli, ballare, mangiare. Una compagnia balcanica dionisiaca che va alla deriva. Proprio perché allora mi sembrava che la terra mi si spaccasse sotto i piedi, filmai così la fine di quel film».

Come già accennato, la vicenda narrata ha per sponde temporali il 6 aprile 1941 (quando Belgrado è investita da un bombardamento nazista) e il 1992 (con il divampare della guerra in Bosnia), seguendo le gesta dei due amici Marko Dren, “intellettuale” comunista, e Petar Popara detto “Il Nero” (Blacky), di professione elettricista, di fatto due banditi che tirano a campare a capo di un gruppo di trafficanti. Marko, con uno stratagemma, confina parenti e amici – tra cui Nero e famiglia – in uno scantinato, convincendoli che la guerra in superficie sta proseguendo e quindi della necessità di fabbricare armi. Nel frattempo gli anni (e soprattutto la Storia) fanno invece il loro corso…

Come ancora lo stesso Kusturica ha avuto modo di specificare «[q]uesta storia è nata dalla mia sofferenza personale. […] Nei Balcani il sentimento collettivo di appartenenza a un gruppo non nasce da una visione serena e razionale della storia. Nel film ho voluto opporre il personaggio di Marko, che è attaccato alla donna che ha rubato all’amico e che non pensa che al profitto che può trarre dalla vendita di armi, a quello del Nero che è coinvolto dall’illusione ideologica collettiva e che vi trova una felicità quasi religiosa. […] Credo che il mio interesse per i dilemmi della vita, della giustizia, del mondo sia stato nutrito dalle molte letture dei classici russi. Il titolo stesso del film riprende “Memorie del sottosuolo” di Dostoevskij, un libro che ho spesso pensato di trasporre, tanto il cinismo del protagonista mi sembra molto moderno. […] È stato incredibile come la gente mi abbia attaccato dopo questo film. […] Sono stato accusato di aver fatto della propaganda in un film che è fondamentalmente contro di essa».

Un «necrologio» dedicato «ai nostri padri e ai loro figli» di un Paese che “c’era una volta”, un affresco intriso di disillusione e amarezza, eppure venato di nostalgia non certo per un regime imbalsamato ma per la vitalità di una patria multietnica, emerso come reazione al forzato allontanamento dalla propria terra e al fiorire di gretti nazionalismi spacciati per espressioni di democrazia: letto da un punto di vista esclusivamente politico, ci si potrebbe certo imbattere in alcune ingenuità; visto da quello specificatamente cinematografico, un’esuberanza espressiva che ha ormai lasciato un segno nella storia della settima arte, sulla scia della Nová vlna (la Nouvelle Vague ceca) e dell’amatissimo Federico Fellini.