Ricordiamo oggi, nel centenario della nascita, il magnifico Orson Welles come un gigante dello spettacolo mediatico di ogni tempo, un istrione capace di essere attore, scrittore e produttore radiofonico, teatrale e cinematografico; ma soprattutto come il regista americano – che trova il suo omologo europeo in Jean Renoir – precursore del cinema moderno e autoriale.
Attore, regista e sceneggiatore di importanza capitale nella storia del cinema, tanto da venire spesso associato – in combutta con pochi altri – all’idea stessa di cinema, Orson Welles è stato uno dei primi autori cinematografici a essere massimamente consapevole del proprio mezzo espressivo, di tutte le sue implicazioni artistiche e linguistiche; soprattutto della naturale prevalenza del linguaggio visivo sulle altre istanze comunque presenti nel cinema, come quella teatrale (la recitazione) e quella narrativa (l’intreccio).
Le storie al cinema si scrivono con la luce, diceva qualcuno, e Welles fu uno dei primi ad onorare in toto tale elementare intuizione. Il suo filmare è stato un massiccio utilizzo di focali lunghe, che esasperano la profondità di campo, di giochi espressivi di luci e di ombre, solide come membra di corpi; il suo narrare, nell’insieme, un incedere secondo un compatto apparato stilistico, maturo fin già dalle prime regie, per dare spessore a un testo filmico dal costrutto un po’ barocco (cioè ridondante, la critica che più spesso gli è stata mossa) ma comunque volto a fare di ogni frame un quadro (visivo) massimamente significante e indelebile nella mente dello spettatore.
Un cinema magniloquente, di larghi ambienti e personaggi distorti, in rilievo, molto fisici, che riempiono gli spazi indagati e percorsi da insistiti piani-sequenza; non solo bello da guardare (con Welles il cinema è goduria dell’occhio), ma anche sapientemente costruito secondo elementi funzionali alle tematiche, mai lineari ne banali, e all’intreccio, a volte fortemente caratterizzato dal genere noir – non un noir qualunque, ma uno di quelli firmati Orson Welles.
Può la mente umana concepire un riassunto di sole ottocento parole capaci di ricordare una parabola artistica ricchissima come quella di Orson Wells? Ci si prova, in estrema sintesi.
Nato vicino a Chicago da un brillante ingegnere e da una pianista anche suffragetta, Welles ha un’infanzia felice. È un bambino di intelligenza precoce, stimolato dall’ambiente familiare propositivo, aperto a viaggi e contatti con artisti e intellettuali, abituali frequentatori della casa dei genitori.
Le primissime esperienze teatrali le fa alla scuola elementare, dove già pare si elevasse dalla media, tanto che un giornale locale gli dedica un articolo dal titolo “Disegnatore, attore, poeta: non ha che dieci anni”. I genitori muoiono prima dei suoi quindici anni; il giovane Orson è affidato alla tutela del dottor Maurice Bernstein, amico di famiglia e importante figura della sua adolescenza (ispiratore del personaggio di Mr. Bernstein in Quarto Potere). Forse è questa, al netto del naturale dolore da distacco, la sua grande fortuna: impara presto a “stare al mondo”, maturando quella forte personalità che poi riversa, lui persona dalla creatività innata, nei suoi poliedrici approcci artistici.
Gli esordi come attore e bozzettista teatrale avvengono a Dublino, dove si era recato in cerca di fortuna – con l’idea della pittura – e poi, tornato negli Usa nel 1933, continuano a Broadway l’anno successivo. Sono gli anni in cui l’America esce dalla depressione quelli che lo vedono molto impegnato in teatro e alla radio, per la quale scrive e recita diversi drammi.
Celeberrimo l’episodio con il quale conquista improvvisa fama: la trasposizione radiofonica del romanzo di Herbert G. Wells “La guerra dei mondi”, che (siamo nel 1939) scatenò un’ondata di panico sulla costa Est degli Stati Uniti, dove la popolazione credette a una vera invasione marziana. Il fatto, anziché una ramanzina dei produttori, gli procura un contratto con la RKO, che gli frutta un ingresso al cinema dalla porta principale, con la possibilità di lavorare in assoluta libertà e con budget illimitato.
Così, dopo la sopravvenuta improvvisa impossibilità (causa scoppio guerra in Europa) di realizzare il progetto della trasposizione in cinema del conradiano “Cuore di Tenebra”, Welles può realizzare il suo capolavoro: l’immensoQuarto Potere (Citizen Kane, 1941). Il film più film dell’intera storia del cinema registrò all’uscita uno scarso successo di pubblico, ma è rimasto di importanza epocale per una miriade di ragioni, e ancora in tempi recenti considerato – dalle varie classifiche all’uopo stilate – il miglior film mai realizzato.
Dopo cotanto esordio, Welles non raggiunge più – forse – le vette del Kane, ma costruisce comunque un’opera complessiva ricca di fascino e di luce autoriale, che consta alla fine di tredici lungometraggi, l’ultimo dei quali realizzato nel 1978.
Sosteneva Welles in un’intervista del 1963 che “Nel cinema, come in qualsiasi mestiere, la tecnica s’impara in quattro giorni. Difficile, invece, è come servirsene per fare dell’arte. Per questo occorrono anni.”. Pare che il nostro ci sia riuscito. I migliori film di Welles sono soprattutto dei fascinosi labirinti di immagini, dove i caratteristici tratti del suo stile – le distorsioni spaziali, i punti di vista innaturali, l’uso espressionista della fotografia – sono manifestazioni del suo essere autore al di sopra della storia. Per Welles prima di tutto c’è l’atto di proferire cinema, ovvero la dominanza del suo linguaggio e del suo autore su tutto il resto. Se il cinema è la più grande macchina delle illusioni che il mondo possa avere, Orson Welles è stato un suo impareggiabile mago illusionista.
Anche per questo, è stato uno dei pochi cui competeva – e continua a competere – un livello di importanza e di fama non limitata a uno o più dei suoi film, ma che abbraccia l’intera sua opera. Di lui non si sentiva dire “Welles è l’autore di Citizen Kane“, oppure “è l’autore di L’Infernale Quinlan“, ma piuttosto affermazioni del tipo “Orson Welles è il Cinema!”. Evviva.