Chiamami Steven. Nel senso di Steven Spielberg, anche se il regista americano non è accomunabile a un novello Ismael, reietto personaggio di ispirazione biblica, unico tornato dalla caccia alla Balena Bianca per raccontarcene la storia, ma è piuttosto un narratore post-moderno, abilmente in bilico tra istanze d’autore e necessità dello spettacolo votato al mercato. Il suo Lo Squalo, di cui ricorre il quarantesimo compleanno, è queste due cose insieme, mentre tra di esse spicca chiaro il debito verso l’immenso Moby Dick di Melville. 

È un prodotto culturale ibrido e di confine, che testimonia assai bene l’epoca del passaggio dal cinema confezionato secondo logiche a sé interne (soprattutto sul piano estetico) a quello del prodotto forgiato dal marketing. Non a caso il film, il terzo professionale per il ventisettenne Spielberg, registrò il maggior incasso della storia, superato pochi anni dopo da Guerre Stellari (G. Lucas, 1977); anche se il film con il maggior incasso reale (calcolando l’inflazione), quindi con il maggior numero di spettatori in sala, rimane e rimarrà – forse per sempre – Via Col Vento (V. Fleming, 1939). Già il citare questi tre film hollywoodiani molto celebri e visti praticamente da tutti – in sala, su tv generalista, pay-tv, home video o altro – traccia la rotta di quello che più preme sottolineare nel rammentare il primo grande successo di Spielberg: assumiamo Lo Squalo come il simbolo del suddetto passaggio epocale – dal cinema prodotto per sé al cinema orientato al mercato – e cerchiamo di sviscerarne le circostanze. 

I tre film citati si dislocano lungo tre diversi momenti della storia del cinema americano, con riguardo in particolare al grado di mercificazione dell’industria culturale che li ha prodotti, che determina – tra l’altro – un diverso approccio al fenomeno (o strumento) della serialità. Lo Squalo ha avuto tre sequel, mentre Guerre Stellari due sequel e addirittura tre prequel, è anzi il primo film per il quale è stata escogitata l’aberrazione mercantile del prequel. Via Col Vento è rimasto invece unico esemplare, se mai ha inaugurato il filone del melodramma hollywoodiano magniloquente. 

Concludiamo quindi che tali differenze sostanziali indicano le diverse strategie produttive proprie delle diverse epoche: prodotto vs. mercato. Ma anche tra Lo Squalo e Guerre Stellari la differenza è significativa, visto che i sequel del primo sono venuti solo dal successo dell’originale – e diretti da altri – mentre Guerre Stellari è nato già come progetto che prevedeva altri episodi, tutti poi diretti da Lucas stesso (con il merchandising e i vari spin-off, l’intera macchina Star Wars ha fatto nel tempo un fatturato da multinazionale). Il film di Spielberg risulta essere allora, come già detto, un ibrido. Inaugura la tendenza al marketing dell’industria culturale cinematografica, non essendone però ancora schiavo del tutto. 

Lo Squalo è infatti un film complesso, al di la dell’accattivante superficie spettacolare, che trae ispirazione per il suo materiale narrativo e tematico da almeno due diverse matrici letterario-culturali, tipicamente americane. La prima matrice pesca a un livello alto, tra l’immaginario e il narrato tipici dei romanzi di avventura e di mare; in particolare, e in modo diretto ed evidente, da Moby Dick (H. Melville, 1851). È infatti ripreso nel film di Spielberg il conflitto uomo/natura già presente nel romanzo, del quale, variamente declinato, rappresenta la principale linea simbolica.

L’altra matrice, di più basso cabotaggio, deriva dalla narrativa di intrattenimento e dal cinema di taglio spettacolare, in primis il genere horror thriller e, in parte, un qualcosa di riconducibile al noir anni Quaranta e Cinquanta; dalla quale matrice il regista fa rivivere – adattata al soggetto del film – la magica triade tensione, spettacolo (visivo) e paura. 

Poi ne Lo Squalo spielberghiano si rintraccia anche una matrice intermedia nel tema, non prevalente ma ben esplicitato nella seconda parte, dell’amicizia virile in contesti avventurosi: si risale con ciò al cuore della tradizione filmica americana, quella del western classico e del film di guerra di taglio “romantico”, hollywoodiano anni Cinquanta. La forza de Lo Squalo è soprattutto quella di mixare tutto ciò con intelligenza, anche visiva, da parte di un giovane regista che mostra già piena padronanza dei meccanismi spettacolari attrattivi, come di quelli raffinati da cinema d’autore – la crescente suspense della prima parte – già ben collaudati dai tempi di Duel (1971). 

Col senno di poi, si può leggere il grande successo del film come un primo momento di presa di coscienza, da parte dell’apparato produttivo hollywoodiano, che il pubblico potenziale era vasto a sufficienza per essere attaccato, e segmentato, secondo strategie produttive di taglio mercantile. 

Infatti, Spielberg diventerà, dalla saga di Indiana Jones in poi (pensata fin dall’inizio in termini seriali, a differenza dello Squalo), il prototipo americano – insieme a Gorge Lucas – del regista e produttore post-moderno di abilità spettacolari e visivamente coinvolgenti ma superficiali nei contenuti, fautore di un prodotto parzialmente regredito all’originario cinema delle attrazioni di George Melies. 

Nonostante ciò, Steven Spielberg resta comunque regista di grande talento, che avrebbe forse fatto altro se non si fosse trovato nell’epoca della suddetta rivoluzione produttiva – si teme irreversibile – che il cinema non solo americano ha conosciuto tra gli anni Settanta e Novanta del secolo trascorso. E per nostra fortuna Lo Squalo è film ancora leggibile e godibile secondo altre logiche, presidia il limite ultimo prima della disgraziata virata epocale, e la matrice letteraria sopra ricordata ne fa certamente un opera, anche visivamente, di elevato livello, a buon diritto entrata nell’immaginario “buono” del pubblico di tutto il mondo.