Un’isolata villa di campagna sulle colline dell’Appennino piacentino nei pressi di Bobbio. Una famiglia borghese: la madre (vedova e cieca) con i figli (orfani) Augusto (il maggiore, che si vergogna degli altri tre fratelli), Giulia (psicologicamente immatura e gelosa della fidanzata cittadina di Augusto, Lucia), Alessandro (soggetto a nevrosi e morbosamente attratto dalla sorella) e Leone (il minore, ritardato mentale ed epilettico). «Come sono infelice!» sospira Ale (così chiamato dagli altri familiari), posando all’improvviso la testa sulle ginocchia della madre. «Che croce vivere in questa casa!» afferma invece sconsolato (e non ascoltato) Leone dopo l’ennesimo litigio fra gli altri fratelli tra le mura di casa. E «croce e delizia» – l’acuto finale di un celebre duetto da La Traviata che sta andando sul giradischi della sua camera – sono proprio le parole sulle quali esala il suo ultimo respiro Ale, colto da un violentissimo attacco di epilessia, implorando (senza esito) l’aiuto di Giulia. Questo dopo aver prima dato una leggera spinta alla madre giù in uno strapiombo sul ciglio della strada, poi sedato e dolcemente affogato Leone nella vasca da bagno e infine tentato di soffocare con un cuscino la stessa Giulia, semi-immobilizzata a letto a causa di un incidente domestico.

Il sintetico quadro e le brevi sequenze cui si è appena fatto cenno appartengono a I pugni in tasca (1965), una pellicola scritta e diretta da un regista di Piacenza allora ventiseienne, Marco Bellocchio, al suo esordio assoluto nel lungometraggio cinematografico, e proiettata per la prima volta cinquant’anni fa nel parco del Grand Hotel di Locarno, nell’ambito del locale Festival del film. «I pugni in tasca resta tra quei film che hanno fatto la storia di Locarno come luogo di scoperta e di lancio di opere che, senza paura di essere fraintesi, possono essere definite scomode. Ripresentarlo in una versione restaurata è insieme un doveroso omaggio all’atto d’inizio di un grande cineasta e l’indicazione di una linea di programmazione fedele ai suoi principi. La scelta di conferire il Pardo d’onore a Marco Bellocchio nasce inoltre dalla consapevolezza che il suo fare cinema – soprattutto in anni recenti – abbia molto da raccontare a chi vive in Italia ma anche a chi fa cinema nel resto del mondo». Così il direttore artistico del Festival, Carlo Chatrian, ha motivato l’odierna assegnazione del Pardo d’onore Swisscom 2015 al regista italiano, nel giorno in cui il suo debutto sul grande schermo tornerà a illuminare, nel suo bianco e nero restaurato, la località sulle rive ticinesi del Lago Maggiore.

In passato tale riconoscimento è andato – tra gli altri – a cineasti quali Samuel Fuller, Jean-Luc Godard, Ken Loach, Sidney Pollack, William Friedkin e Werner Herzog. Per arrivare a Bellocchio, cercando anche di ricapitolare qual è stato l’effetto della sua opera prima nel contesto del cinema degli anni Sessanta, conviene dare la parola a un suo collega, patitissimo fruitore del grande schermo in gioventù, una passione che ha trasferito prima nei suoi scritti e poi nelle sue pellicole, una volta divenuto regista: «Arrivare al capolavoro dopo cinque o sei film può essere, quando succede, una bella vittoria: si vede che strada facendo qualcosa si è imparata. Ma presentarsi con un capolavoro da perfetti sconosciuti, lascia increduli e sospettosi: un grande debutto è sempre disturbante. […]

Ho vissuto l’emozione di vedere I pugni in tasca alla sua prima uscita a Roma in una sala strapiena di pomeriggio, e mi ricordo poi una serata alla Casa della cultura dove […] non c’erano domande ma quel certo disagio (salutare) che provocano gli eventi “scandalosi”, che cambiano il nostro modo di pensare. […] [S]embrava che non si parlasse solo di un film ma di una svolta nel lavoro di tutti, campioni e gregari o semplici aspiranti. Scoprivo quella sera un’altra faccia di un debutto importante: fa bene non solo all’autore ma a tutto il sistema, smuove le acque, incoraggia a rinnovare la bottega. […] [I]l primo film di Bellocchio […] a metà degli anni Sessanta ebbe un effetto dirompente che andava al di là del fatto estetico» (Gianni Amelio, Un film che si chiama desiderio, Einaudi, 2010, pp. 276-277).

Viste queste premesse, il titolo in questione potrebbe quindi apparire a tutti gli effetti un esempio da manuale di storia del cinema di aperta anticipazione dei fermenti della contestazione che si sarebbe di lì a poco espressa nel Sessantotto. Ma è lo stesso Bellocchio in un’intervista in anni più recenti a fornirne una diversa e più ampia lettura: «L’idea di fare riferimento a un discorso politico non c’era […]. Tutto il cuore della prigione familiare che descrivevo, la sua chiusura autistica, le grida strozzate, escludeva la politica. Che poi I pugni in tasca abbia prefigurato con lungimiranza alcuni aspetti del Sessantotto non è escluso. Io penso alla fugace fiamma del Sessantotto come a un atto gioioso di contestazione dell’esistente acceso da alcuni slogan affascinanti ma superficiali. […] In questo senso, l’eliminazione fisica della madre cieca e del fratello disabile da parte di Lou Castel in I pugni in tasca, aveva in sé […] “un’idea dei propri simili quasi cripto-nazista”. Una logica perversa che sarà la linea guida del terrorismo italiano. Uccidere in nome dell’ideologia. Non considerare più la persona, ma soltanto il bersaglio. […] Perciò, ripeto, I pugni in tasca prefigurò più che il “gioioso” Sessantotto il peggio che venne dopo» (“MicroMega”, n.6/2010, pp. 120-121).

Nonostante i cinquant’anni che ci dividono dalla sua uscita e da quel periodo, rivedere oggi il film rende ancora pienamente l’idea di una lama con cui si è voluto rovistare nel cuore di quella società e di quella famiglia borghesi, che hanno evidenti – anche se trasfigurati – rimandi autobiografici. Ma proprio le parole del regista ci sembrano confermare che il tempo (la Storia) ha contribuito a trasformare il suo sguardo su quelle cecità di madri (e su quelle assenze di padri) – “eliminati” a metà degli anni Sessanta – in uno dei più sinceri, poetici e lancinanti finali del cinema italiano degli anni Duemila: Roberto Herlitzka – nei dolenti panni di Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse, inBuongiorno, notte (2003) – che cammina libero per le strade della Magliana (con l’EUR sullo sfondo), tra le auto in sosta, in un’umida alba di maggio. Un “padre” – processato, condannato (e quindi perduto) dai “figli” – a cui il buio della notte (della sala: il sogno del cinema) concede una “folle”, inconcepibile, nuova possibilità, desiderata anche dall’autore stesso delle immagini: lo sguardo di Marco Bellocchio ci sembra ancora vivo, vigile e lucido.