Compie oggi sessant’anni l’evento iniziatico di un mito hollywoodiano, il mito giovanile per eccellenza. L’attore statunitense James Bayron Dean, da Marion, Indiana, sarebbe oggi un anziano signore di ottantaquattro anni, ovviamente se fosse sopravvissuto – principalmente ma forse non solo – all’incidente stradale che l’ha ucciso nel tardo pomeriggio del 30 settembre 1955, mentre con la sua auto da corsa si recava a Salinas, California, per una gara.
E chissà che carriera avrebbe avuto James Dean se avesse continuato a recitare. Di certo avrebbe col tempo perduto quell’aria da cagnolino bastonato, alla perenne ricerca di un qualcosa che lui stesso ignorava. Con ogni probabilità non sarebbe rimasto incastrato nel ruolo del giovane ribelle, bello e dannato, tenero e disadattato che il film di Elia Kazan La Valle dell’Eden (1955) e soprattutto il celebre Gioventù Bruciata (N. Ray, 1955) gli avevano cucito addosso. È abbastanza sensato immaginarlo in una lunga carriera da divo navigato, a metà strada tra un Marlon Brando, anche lui esordito nei panni di un giovane ribelle in t-shirt bianca e giubbotto di pelle, e un Paul Newman, il piacione dall’aria furba adatto a molti ruoli, anche di opposta appartenenza sociale. Quasi certamente non sarebbe diventato un mito, almeno nello stesso modo in cui lo è invece diventato.
Ma il destino ha disposto diversamente. Fermando la sua vita all’età di soli ventiquattro anni, ha fatto di lui una cosa sola con gli unici tre personaggi recitati in cinema, caratterialmente così simili da sembrarne uno solo. Bisogna allora scomodare il lessema “icona”, odioso la sua parte – non per colpa sua, ma per il di lui ipertrofico utilizzo -, ma ancora il più adatto a rendere il concetto di un’immagine diventata altro rispetto al suo referente più immediato.
La morte violenta ce l’ha infatti consegnato integro nel ruolo del giovane ribelle emblema di una generazione, fissandolo per sempre in una sorta di perenne fermo-immagine. Effetto amplificato dal fatto che due dei tre film in cui recitò uscirono nelle sale americane dopo la sua morte: Gioventù Bruciata solo un mese dopo e l’ultimo, Il Gigante di George Stevens, dovette addirittura terminare le riprese senza di lui.
James Dean detiene anche il record di due nomination postume all’Oscar per il miglior attore protagonista: una per La Valle dell’Eden nel 1956 e l’altra per Il Gigante nel 1957. Circostanza, quest’ultima, che fa molto riflettere sulla capacità onnivora dello star business hollywoodiano, che sfrutta in senso spettacolare e divistico anche la morte, specialmente quando coglie, inattesa, qualcuno di molto famoso, di molto giovane o di molto bello.
Ricorre nel mese di ottobre anche l’anniversario dell’uscita del fatidico Gioventù Bruciata, film che deve in parte la sua fama all’indissolubile e inevitabile – quasi macabro – legame con la disgraziata sorte del giovane attore, per le ragioni già sviscerate. Il parallelo tra la morte in una corsa d’auto dell’antagonista di James Dean nel film e l’incidente di Dean stesso (come già ricordato, avvenuto poco prima dell’uscita) fu impressionante nell’immaginario di tutti, e contribuì a rendere Gioventù Bruciata una pietra miliare del melodramma hollywoodiano classico. Se si ricorda poi che gli attori coprotagonisti di Dean, l’adolescente Sal Mineo e la spregiudicata Natalie Wood, persero la vita prematuramente in fatti drammatici (Mineo assassinato a 37 anni e la Wood annegata in circostanze mai chiarite a 43), il quadro iconografico appare completo.
Ma il film di Nicholas Ray non vive solo su questi “scandali”. Sceneggiato da uno specialista a partire da un soggetto dello stesso regista, brilla comunque di luce propria, è pellicola ammirevole per la bellissima messa in scena e per la magica interpretazione di tutto il cast, genitori dei ragazzi ribelli compresa.
Il film voleva registrare parte di quanto la società americana stava vivendo nel secondo dopoguerra, in particolare la novità sociologica dei giovani insofferenti alle regole del buon vivere borghese, nonché l’incapacità da parte dei loro genitori di comprenderne il profondo disagio. Molo esplicativo in tale senso il titolo originale dell’opera. Si dovrebbe anzi dire il titolo del film, giacché quello dei distributori italiani dell’epoca fu ispirato, come sempre accadeva, da criteri più da scoop giornalistico che filologico-testuali. Il vero titolo Rebel Without a Cause (ribelle senza una causa) rende infatti perfettamente il senso del tutto. Il tema sociale viene declinato molto bene dal regista nell’impostazione stilistica, nella quale spicca l’uso espressionista di un colore marcato, a tratti violento.
Riportano le cronache che Nicholas Ray iniziò a girare il film in bianco e nero, ma ai primi “giornalieri” si accorse del taglio troppo documentaristico, quindi edulcorato, che tale fotografia conferiva al soggetto. Decise allora di cambiare in corsa, buttando diversi giorni di lavorazione già stampati pur di migliorare la resa estetica del suo film. E poi le inquadrature oblique, l’utilizzo del formato panoramico, quello molto rettangolare che distorce gli ambienti, le soggettive improvvise: tutti elementi per sottolineare il piglio ribelle dei protagonisti e l’atmosfera stranita della storia.
Uno sguardo ambiguo, inquieto e violento (il colore) su una realtà altrettanto tale, almeno nella percezione della generazione dei più grandi, quelli che, in un certo senso, si sono incaricati di raccontarla. Stile da manuale, memorabile, e contenuti di spessore: queste le ragioni che fanno di Gioventù Bruciata, per citare il dizionario Mereghetti, “un classico, allora in anticipo sui tempi, che non ha smesso di emozionare”. Così come non smetterà mai di emozionare il ricordo del tragico destino che ha reso James Dean un immortale mito dell’immaginario cinematografico.