In principio fu lo scrittore inglese Herbert George Wells (1866-1946), considerato – insieme a Jules Verne (1828-1905) – il padre di quel genere letterario che nel corso del XX secolo i suoi connazionali hanno poi finito per chiamare science fiction: uno dei suoi primi romanzi – per l’esattezza quello che lo rese da subito famoso – si intitolava infatti La macchina del tempo (The Time Machine, 1895). L’idea di viaggiare sfidando i limiti imposti da ciò che siamo abituati a definire il “presente”, il “qui e ora”, a ben vedere l’elemento più vincolante e insuperabile con cui ciascun essere umano si trovi a dover interagire nel corso della propria vita: una materia decisamente più che ideale per quella scatola dei sogni che era ed è il cinema.
Il primo adattamento di questo libro per il grande schermo, che da noi prese il titolo diL’uomo che visse nel futuro (1960, ovvero nel pieno del boom del cinema di fantascienza made in Usa) venne prodotto e diretto da George Pal, autentica autorità nel campo, e interpretato da Rod Taylor, risultando uno dei film a più alto incasso nella storia della Metro-Goldwyn-Mayer, nonché il maggior successo commerciale del suo regista e fruttando un Oscar ai creatori degli effetti speciali (il trio di “maghi” degli special photographic effects costituito da Wah Chang, Gene Warren e Tim Baar).
Nel 2002 un suo rifacimento – che ha trasferito l’azione dalla Londra vittoriana a New York – ha visto la presenza del britannico Simon Wells (pronipote dello scrittore) dietro la macchina da presa e la partecipazione di Guy Pearce e Jeremy Irons nei ruoli principali.
Per vedere però valorizzati al loro meglio e in maniera invero ingegnosa – da un punto di vista non solo narrativo – i possibili paradossi legati allo spostamento di esseri senzienti attraverso la soglia della quarta dimensione è stato necessario attendere, trent’anni fa, la 42ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nell’ambito della quale venne presentato Ritorno al futuro (Back to the Future), scritto – a quattro mani con Bob Gale – e diretto da Robert Zemeckis (1952), sotto l’egida del re Mida di Hollywood Steven Spielberg nelle vesti di produttore.
Il film, campione di incassi di quell’anno, segnò l’ingresso nella storia del cinema – e nell’immaginario collettivo – dei personaggi di Marty McFly («Se avessi un po’ più di tempo… Ehi, un momento… Ho tutto il tempo che voglio!») e di Emmett (ovvero la parola “time” al contrario) “Doc” Brown; della fatidica notte di sabato 26 ottobre 1985 (movimentata dall’arrivo di terroristi libici su di un furgoncino Volkswagen T2); della mitica DeLorean DMC-12 alimentata a plutonio; delle necessarie 88 miglia all’ora per il viaggio nel tempo… E di quel finale apertissimo a qualsiasi soluzione (l’ultima delle quali era proprio l’idea di un sequel): «Strade? Dove stiamo andando, non c’è bisogno di strade…». Una frase citata perfino nel Discorso sullo stato dell’Unione del 1986 dall’allora presidente Ronald Reagan (a sua volta tirato scherzosamente in ballo da una battuta della sceneggiatura).
Come scrive Andrea Fontana, «[i]l cinema di Zemeckis è movimento. […] [L]a riconoscibilità più immediata del movimento nel cinema di Zemeckis è rappresentata dal viaggio, dal classico road movie. […] Il viaggio implica un movimento da A a B, grazie al quale si esplora lo spazio circostante, che diventa non solo il teatro dell’azione ma un personaggio in grado di contribuire allo sviluppo della storia e dell’individuo. […] In Zemeckis, inoltre, il viaggio e il movimento che ne consegue, hanno una struttura precisa, lucida e studiata. Tale struttura potrebbe definirsi “a chiasmo” (AB-BA), in pratica nell’idea zemeckisiana è implicita un’andata e un ritorno. L’andata simboleggia il movimento da un luogo, solitamente famigliare, verso l’ignoto, che diviene così il polo dialettico del processo formativo. Il ritorno diventa l’elemento vitale affinché la formazione del personaggio avvenga realmente, il pezzo mancante e necessario per la compiutezza. Il ritorno altro non è che la dimostrazione di un’acquisita saggezza che porta il personaggio a tornare nel luogo natio dopo un’avventura, per vederlo con occhi nuovi, con una prospettiva di sguardo differente, mutata, capace di cogliere nell’ambiente quei fattori che possono renderlo felice e in pace con se stesso e la propria vita» (A. Fontana, Robert Zemeckis. Verso lo sguardo del cinema e oltre, Sovera Edizioni, 2010, pp. 19-20).
Un assunto che – se si prende in considerazione l’intero percorso della (fortunatissima) trilogia della quale il film in questione costituì il primo, involontario tassello – bene sintetizza anche tutto l’ampio tragitto dellaBildung del diciassettenne Marty McFly, aspirante musicista rock ed emblematico esponente degli adolescenti cresciuti durante gli amati/odiati anni Ottanta, cui è stato permesso addirittura di riscrivere la storia sua, della sua famiglia e della loro Hill Valley. Non a caso, il candido Forrest Gump e la sua rivisitazione di quarant’anni di storia americana erano davvero dietro l’angolo…
A ogni modo, restando all’attualità, per l’occasione di questo importante anniversario, la Universal ha già da tempo messo in programma la pubblicazione – a partire dal 21 ottobre 2015, la data del futuro nella quale Marty e Doc si ritrovano all’inizio del secondo episodio – due nuove edizioni (Blu-ray e DVD) in cofanetto che includono sia i tre titoli della saga che un disco con un’ora di extra. Anche se la notizia più ghiotta per tutti i fans (e per i semplici appassionati) è certo quella che nello stesso giorno – già battezzato il “Ritorno al Futuro Day al cinema” – il primo film della serie tornerà nelle sale di tutta Italia: Back to the Future? The Future is Back!