La recentissima uscita in Italia del film Macbeth (id., 2015), diretto dal regista australiano Justin Kurzel (1974) – che vede nel ruolo dell’ambizioso e tormentato regicida Michael Fassbender e in quelli della sua lady manipolatrice Marion Cotillard -invita a uno sguardo retrospettivo sulle tre più importanti versioni cinematografiche dello shakespeariano scottish play (il “dramma scozzese”, come viene comunemente chiamato in ambito teatrale anglofono in modo da poter addomesticare il presunto malaugurio che pare accompagnare il suo titolo): quelle firmate da Orson Welles, Akira Kurosawa e Roman Polanski.
Macbeth (id., 1948, Orson Welles) – Come ha scritto Joseph McBride, uno dei suoi biografi, «ogni volta che ha dovuto ritrovare la sua identità artistica, è verso Shakespeare che Welles si è rivolto»: non è quindi un caso che l’enfant prodige avesse già messo in scena l’opera ad Harlem (il celebre Voodoo Macbeth) nel 1936, nell’ambito del Federal Theatre Project voluto dal New Deal rooseveltiano, e poi nel 1937 in una riduzione radiofonica. Saldando le sue due grandi passioni – teatro e cinema – e nell’ottica di fare economia sia in fatto di tempo che di produzione, egli dapprima rappresenta il dramma a Salt Lake City nell’ambito dello Utah Centennial Festival e successivamente, con un cast quasi identico, effettua in soli 21 giorni dell’estate 1947 le riprese del film in un teatro di posa di una piccola casa di produzione, la Republic Pictures (specializzata in western, serial e B movies), con un budget ridottissimo (65.000 dollari).
Secondo Paolo Mereghetti, «[a]ttraverso il Macbeth, attraverso i suoi scenari ostentatamente di cartapesta, i suoi fumi e i suoi dialoghi in versi così “inaccettabili” dal buon senso commerciale degli studios, Welles ritorna all’origine della propria storia di regista e recupera un’indipendenza che non è solo creativa, ma davvero ontologica». Peccato che il pubblico delle prime proiezioni non gradisca il marcatissimo accento scozzese con cui il regista – in segno di rottura con la tradizionale dizione teatrale – aveva fatto recitare i versi shakespeariani, tanto che la casa di produzione gli impone il ridoppiaggio di gran parte dei dialoghi e inoltre un taglio secco di venti minuti, facendo così scendere la durata dagli originari 107 agli attuali 86 minuti. Ciò nonostante, quel che resta della pellicola farà comunque scrivere allo studioso James Naremore che si parla del «più puro esempio dell’espressionismo americano». Da recuperare in versione integrale.
Il trono di sangue (Kumonosu-jô, 1957, Akira Kurosawa) – «Ammirate le rovine del castello delle illusioni dove ancora si aggira lo spirito di chi, consumato dal desiderio, pagò il suo tributo al Trono di sangue. Il sentiero dell’ambizione, senza via di scampo, conduce alla rovina»… In quegli stessi anni anche Kurosawa sta pensando a una trasposizione cinematografica della tragedia, ma rimanda il tutto per non mettersi in diretta concorrenza con Welles. Dopo il successo internazionale di Rashômon (1950) e I sette samurai (1954), il maestro nipponico rimette mano al progetto, la cui idea gli era venuta leggendo la storia del proprio Paese: «[l]’epoca delle guerre civili è molto simile a quella descritta da Shakespeare, al punto che anche da noi è esistito un personaggio come Macbeth; non mi è stato quindi difficile trasporre il dramma in ambiente giapponese; ho girato il film come se fosse una storia giapponese del XVI secolo».
Nella sua liberissima (e folgorante) interpretazione, Macbeth diventa così Washizu (una figura influenzabile che viene stuzzicata dalla moglie come fosse Otello), mentre Lady Macbeth è Asaji (una fredda e perfida versione al femminile di Iago, sempre pronta a versare veleno nelle orecchie del titubante consorte al momento più opportuno). Il finale è degno delle continue invenzioni visive (e narrative) disseminate in tutto il resto della pellicola, compreso quel ralenti sulla caduta di Washizu (interpretato da Toshiro Mifune) davanti ai suoi stessi uomini, che gli si sono rivoltati contro per timore di ulteriori ritorsioni da parte degli avversari, giustiziandolo sotto una grandinata di frecce. Da antologia.
Macbeth (The Tragedy of Macbeth, 1971, Roman Polanski) – Girato in Galles e Inghilterra e uscito nell’ottobre 1971, il film è diretto e cosceneggiato (con il critico e scrittore teatrale Kenneth Tynan) dal regista polacco, che stava cercando di riprendersi dopo il brutale omicidio nell’agosto 1969 nella loro villa di Los Angeles – insieme ad altri amici – della ventiseienne moglie incinta all’ottavo mese (l’attrice Sharon Tate) per mano di un gruppo di adepti del satanista Charles Manson: «Dopo gli omicidi, ogni cosa che prendevo in considerazione mi sembrava futile. Visto quello che mi era successo, non riuscivo a pensare a un argomento che potesse valere la pena, o meritare che ci passassi sopra un anno o più. […] Ho sempre avuto un gran desiderio di realizzare un film tratto da Shakespeare un giorno o l’altro e quando infine mi sono deciso a tornare al lavoro, ho pensato tra me e me: “Questo lo potrei fare, a questo potrei dedicarmi. Ne vale la pena”».
I ruoli principali vanno al ventottenne John Finch e alla ventiquattrenne Francesca Annis, entrambi in un’età che possa giustificare sia l’ambizione di Macbeth che la futura follia di Lady Macbeth. Nelle parole di Tynan essi «[p]ensano di vivere un’avventura trionfante. […] Lo scontro con la realtà costituisce la tragedia». La pellicola – coprodotta da Hugh Hefner – è stroncata dalla critica Usa, che rinfaccia al regista la collaborazione con l’impero delle conigliette. Curioso il finale, che si discosta dall’originale: dopo la morte di Macbeth per mano di Macduff e l’incoronazione di uno dei due figli del defunto re Duncan, Malcolm, viene infatti mostrato l’altro figlio, il (qui) claudicante Donalbain, che si reca – come se misteriosamente attratto – in visita dalle tre streghe (che in principio avevano seppellito nell’umida sabbia di una spiaggia desolata un cappio, un braccio mutilato e un pugnale). Una fine rappresentata come un (possibile) nuovo inizio.
Come ricorda Agostino Lombardo, «il Macbeth è sì un’opera oscura e sanguinosa, in cui il tessuto malefico della natura umana è individuato della natura umana, è individuato con angosciosa precisione, ma proprio questa lucida e sgomenta rappresentazione del male, questa consapevolezza della crisi del mondo, questa accettazione della dimensione conflittuale della vita, offre valori che sono precari e difficili ma esistono». Una sfida che si può dire affrontata in termini “alti” e personali da ciascuno dei tre grandissimi cineasti presi in considerazione.