Un’assolvenza in apertura, con l’inquadratura che passa dal (muto) nero iniziale dapprima al fragore e immediatamente dopo all’immagine delle onde che – illuminate da una luce quasi aurorale – rotolano maestose sulla superficie opaca dell’oceano, occupando di fatto tutto lo schermo. A queste si sovrappongono i primissimi opening credits, tra i quali il titolo del film, cui vanno a incrociarsi, sovrapponendosi – prima di trovare ciascuno la propria (fugace) collocazione -, i nomi dei due attori principali della pellicola, quasi come una sorta di anticipazione visiva di quella che ne sarà la trama: POINT BREAK, PATRICK SWAYZE, KEANU REEVES. Tutti comunque preceduti dalla dicitura «a KATHRYN BIGELOW film».

L’arrivo del tanto atteso remake – che sarà nelle nostre sale cinematografiche a partire dal 27 gennaio – appare certo l’occasione più indicata per (ri)gustarsi e celebrare in anticipo – correva infatti il mese di luglio del 1991 – i 25 anni dell’uscita dell’originale nelle sale statunitensi. Un film che sulla carta, con l’occhio che corre veloce lungo le righe della sinossi, potrebbe apparire una classica storia di “guardie e ladri” come tante, ma che “letta” sul grande schermo si rivela qualcosa come pochissime altre volte si era potuto vedere fino a quel momento al cinema (fatta eccezione per l’action movie targato Hong Kong, cui infatti l’opera in questione è in qualche modo imparentata).

Bodhi (diminutivo di Bodhisattva: cioè, nella cultura buddista-tibetana, colui che cerca l’illuminazione aiutando gli altri a liberarsi dalle proprie sofferenze), Roach, Tyler e Nathaniel sono quattro amici legati da una grandissima passione per il surf e… per le rapine in banca, ambito nel quale sono conosciuti come la cosiddetta “banda degli ex-presidenti”, in quanto le effettuano mascherati da Johnson, Nixon, Carter e Reagan. Sulle loro tracce c’è già da un pezzo l’agente dell’FBI Angelo Pappas, cui viene affidato come spalla la recluta Johnny Utah, che non esita così a investire da subito del ruolo di infiltrato tra gli abituali frequentatori delle spiagge californiane. Sarà l’inizio di una missione alquanto rischiosa (e di un radicale cambiamento) per il giovane (e intraprendente) agente speciale…

«Volevo che il film fosse un’esperienza molto soggettiva per il pubblico, fare in modo che lo spettatore sperimentasse in prima persona le emozioni di Johnny Utah, si identificasse con lui. Da quest’idea di soggettività sono derivate le scelte fatte per la macchina da presa (molte sequenze sono girate con la macchina a mano) che poteva muoversi molto velocemente e dare la sensazione di essere libera… essere in acqua, volare… In realtà ho lavorato allo script, anche se l’idea non è stata mia. E poi non si trattava di una storia di buoni contro cattivi, ma di un canovaccio sul quale si poteva lavorare a più livelli, azione ma non solo. Il personaggio “buono” è sedotto dal lato oscuro e il “cattivo” non è cattivo sino in fondo. Mi sentivo vicina a entrambi i miei personaggi, come se in un certo senso fossero due metà di una stessa cosa. Utah è curioso e naïf e, nel corso del film, subisce una profonda trasformazione. Bodhi, invece, ha già cercato molto, fuori e dentro se stesso» (Kathryn Bigelow).

Prodotto dal suo allora marito James Cameron (dal quale avrebbe divorziato proprio nell’anno di uscita del film), la pellicola si è avvalsa anche di esperti collaboratori per quanto riguarda la parte tecnica del cast: il direttore della fotografia (e surfista) Donald Peterman (1932-2011) – insieme al quale la regista e sceneggiatrice californiana (1951) sul set ha utilizzato diverse macchine da presa combinandole con lenti particolari, per poi lanciarsi in fase di montaggio in un grandissimo lavoro su come i colori andavano restituiti nell’ambito della pellicola finale – e l’operatore Steady-cam James (Jim) Michael Muro (1966), che lavorerà anche (tra i molti altri) con lo stesso Cameron, Oliver Stone, Martin Scorsese e Michael Mann.

In occasione di una delle sequenze poste direttamente in apertura del film, ambientata all’interno dell’ufficio dell’FBI losangelino (quando il John Utah di Keanu Reeves deve vedersela con il discorsetto di “benvenuto” da parte del Ben Harp di John McGinley), la Steady-cam di Muro danza letteralmente intorno ai due attori, riuscendo a superare nel frattempo sedie, scrivanie, persone e ostacoli vari con una fluidità tale da lasciare lo spettatore letteralmente senza fiato. Questa «invece viene frantumata, sezionata e ricomposta durante l’inseguimento tra Keanu Reeves e Patrick Swayze che indossa la maschera di Reagan. Ecco che il virtuosismo della sequenza dell’ufficio si trasforma e cambia in esercizio cinetico puro, nel quale l’estrema vicinanza dell’obiettivo all’attore e la frammentazione del montaggio contribuisce enormemente al coinvolgimento dello spettatore. Jim Muro trova l’equilibrio perfetto tra la distanza troppo accentuata dal soggetto, nella quale l’attore verrebbe assorbito dal formato “wide screen”, e quella troppo ravvicinata, nella quale si rischia di perdere di vista il soggetto e il suo movimento si trasformerebbe in confusione» (Kathryn Bigelow. Lo sguardo dentro, [a cura di Massimo Causo], Stefano Sorbini Editore, Roma 1997, p. 115).

Visto che ancora non si può sapere su che basi e a che livello i produttori e gli autori del remake abbiano deciso di portare avanti (e fino a che punto) la loro personale visione del “punto di rottura”, l’invito non può che essere quello di prepararsi alla sfida del prossimo fine settimana e al compito che ci attende come probabili spettatori in sala recuperando per il momento i 122 minuti firmati Kathryn Bigelow. Comunque vada, sembra quasi garantito che se ne vedranno sicuramente delle belle…