Quasi unanimemente considerato (e non solo nell’ambito della critica letteraria) il primo, geniale capolavoro di William Shakespeare – che lo scrisse probabilmente nel 1592-93 (quindi all’età di 28-29 anni), poco dopo le tre parti di Enrico VI (nella seconda e terza delle quali inizia appunto la vicenda di Riccardo), chiudendo così la sua prima tetralogia storica – “The Life and Death of King Richard the Third” costituisce un’opera tra le più corpose (3718 versi complessivi contro i 4024 di “Amleto”, la più lunga in assoluto) e folte di personaggi (se ne possono contare ben 57) del poeta e drammaturgo di Stratford-upon-Avon. Oltre a essere una tra le più popolari: non poteva quindi mancare un suo adattamento cinematografico (anzi, più di uno) tra le pellicole sfornate durante quel “Rinascimento shakespeariano” che ha interessato gli anni Novanta del secolo scorso e a cui si è fatto cenno su queste pagine.
Passato attraverso una fase produttiva decisamente laboriosa (basti ricordare le otto ore complessive di girato, più di sei delle quali cadute durante un montaggio protrattosi per quattro anni) e dopo le anteprime di gennaio al Sundance Film Festival, di maggio alla 49ª edizione del Festival di Cannes (dove era stato presentato non in concorso, bensì nella comunque prestigiosa vetrina della sezione “Un certain regard”) e di settembre al Toronto International Film Festival, nell’ottobre di vent’anni fa usciva in sala negli Stati Uniti Riccardo III – Un uomo, un re (Looking for Richard, 1996), film-documentario -da gustarsi rigorosamente in lingua originale con sottotitoli – coprodotto, diretto e interpretato da Al Pacino.
Lo si potrebbe descrivere come una sorta di indagine “metacineteatrale” che vuole testimoniare in formato 35 mm il lavoro di avvicinamento al testo shakespeariano e il successivo tentativo di trasposizione da parte di una troupe cinematografica capeggiata dallo stesso Pacino insieme ad alcuni suoi stretti collaboratori, oltre che rappresentare la decima versione per il grande schermo (la prima in assoluto risale al 1908) del dramma incentrato sulle gesta dell’ultimo sovrano York.
Sempre per restare agli Stati Uniti, curiosamente, poco meno di un anno prima (dicembre 1995), era sbarcata in sala un’altra rilettura decisamente svecchiata e provocante del medesimo testo, il Riccardo III diretto dal britannico Richard Loncraine e tratto dalla riuscitissima versione teatrale di Ian McKellen (non ancora entrato nei panni né di Magneto, né di Gandalf), che per l’occasione firmava il film sia come co-sceneggiatore (con il regista) che come interprete del ruolo principale: l’ascesa al trono di quello che lo stesso attore aveva definito «il padre di tutti i tiranni moderni» veniva calata in un’immaginaria Inghilterra anni Trenta avviata verso l’affermazione di un regime dal sapore non poi tanto vagamente nazista.
Per tornare alla quest intorno a questa history play (ma grandissimo esempio per tutti i modelli tragici a venire) dispiegata da Pacino, a sottolineare lo spirito dell’intera operazione, si tenga presente che l’apertura e la chiusura del film non sono immediatamente dedicati ai versi provenienti dal “Riccardo III”, ma a quelli – ancora più evocativi in fatto di creazione dal nulla di mondi, luoghi e figure tanto su un palco come su un set – appartenenti al celebre monologo di Prospero, nella prima scena del quarto atto de “La tempesta”: «I nostri giochi sono finiti. Questi attori, come ti avevo detto, erano solo fantasmi e si sono dissolti nell’aria, in aria sottile. E, come l’edificio senza basi di questa visione, anche gli alti torrioni incoronati di nuvole, e i sontuosi palazzi, e i templi solenni, e questo stesso globo immenso, con le inerenti sostanze, dovranno dissolversi. E, come l’irreale spettacolo appena svanito, svaniranno, senza lasciare fumo di sé. Noi siamo della sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra piccola vita è cinta di sonno».
Vista la sua iniziale formazione in arte drammatica, è forse inutile ricordare che la passione di Pacino presto accesasi per il grande Bardo veniva da un po’ più lontano: «A volte è difficile esprimere i propri sentimenti a parole. Ecco perché Shakespeare è tanto grande. Lo ascolti e ti dici subito: È proprio come mi sento io. Prova a pensarci: ti innamori e improvvisamente nella tua vita ogni cosa trova il suo posto, in ordine di priorità. Prima che quella persona entrasse nella tua vita, per te era il caos. E quando quella persona se ne va, il caos ritorna. Quando c’è l’amore, c’è un senso di completezza che elimina il disordine. È la più alta forma di civiltà. È Shakespeare. Capisci? È la bellezza. È il modo in cui ti ci rapporti. […] Può non piacere a tutti, ma ci sono anche molte persone a cui non piace nemmeno Beethoven» (Lawrence Grobel, Io, Al Pacino, Sperling & Kupfer, Milano 2006, pp. 128-129).
In chiusura conviene davvero citare il più bel brano di intervista che si può vedere nel film, delle tante concesse davanti alla macchina da presa di Al Pacino da grandi registi e/o interpreti shakespeariani al di là come al di qua dell’Atlantico: a proposito di pentametro giambico, Vanessa Redgrave afferma infatti che «[l]a poesia di Shakespeare e i suoi giambici fluttuano e discendono attraverso il pentametro dell’anima. Ed è l’anima – se vogliamo, lo spirito della gente reale e concreta che attraversa l’inferno e qualche volta momenti di immenso successo e gioia – il pentametro su cui ti devi concentrare, e quando dovessi trovare quella realtà, tutti i giambici avranno un senso».