Ricorre quest’anno il quattrocentesimo dalla morte del grande drammaturgo inglese William Shakespeare. Contemporaneo della regina Elisabetta I, ultima fiera regnante del casato Tudor, fu uno dei protagonisti – forse il principale – della rinascita culturale inglese al tempo della sovrana che ha traghettato l’Inghilterra nell’Età Moderna. Con la sua imponente opera (dodici tragedie, quindici commedie e dieci drammi storici, oltre a numerosi sonetti e qualche poema, tutti scritti tra il 1588 e il 1611) ha dato i natali letterari a personaggi di tale portata, caratteri universali con forti valenze simboliche e/o allegoriche, che non potevano non avere una vasta rappresentazione oltre lo specifico del teatro. 

I film e gli altri prodotti culturali tratti dalle sue opere sono infatti numerosissimi, fatto dovuto anche al fenomeno stilistico e poetico del cambio di registro drammaturgico, e a quello collegato della citazione; nonché a un altro fenomeno che sempre opera con testi di questa portata: quello dei circuiti mediatico-culturali comunicanti. Cioè quella prassi, iniziata con l’instaurarsi dell’industria culturale alla fine Ottocento, secondo cui i prodotti letterari della tradizione dotta (il teatro di secoli prima) confluiscono per osmosi, in forme testuali diverse dall’originale, in quella popolare e dell’intrattenimento. 

Così la circolazione dei testi, dei personaggi e dei temi dell’Opera di Shakespeare ha sconfinato, nella cultura popolare moderna e contemporanea, in molti media narrativi, musicali e visivi diversi dal teatro (e dal cinema). Infatti, nei secoli successivi la sua morte, le sue storie sono diventate soggetti molto sfruttati per l’opera, per il balletto (il più celebre: Romeo e Giulietta, musicato da Sergei Prokofiev nel 1940), per la poesia (rilettura che parte dal romanticismo tedesco e inglese di inizio Ottocento), per il musical (citiamo West Side Story, ennesimo adattamento del Romeo e Giulietta), e poi per la musica pop-rock (Romeo and Juliet dei Dire Straits e Juliet di Robin Gibb i pezzi più famosi), la narrativa per ragazzi e i fumetti. 

Ma è al cinema che l’opera shakespeariana dà il suo meglio. I primi film sono prodotti addirittura in epoca pre-narrativo/classica, quando il cinema si faceva ancora per quadri fissi giustapposti, senza montaggio e con sguardo di tipo teatrale. Si tratta delle produzioni della casa americana Vintagraph del pioniere Stuart Blackton, che aveva capito le potenzialità del mezzo e desiderava utilizzarlo per confezionare prodotti culturali di largo consumo, per un vasto pubblico. Questa casa sviluppò allora due generi, tra questi i “classics”. Pezzi forti del catalogo erano i classici del teatro universale, con un autore su tutti, manco a dirlo: William Shakespeare. Così, già a partire dal 1908, sono messe in scena al cinema alcune delle opere di punta del maestro: le tragedie Antonio e Cleopatra, Giulio Cesare, Macbeth, Il Mercante di Venezia, Riccardo III, Romeo e Giulietta; e poi le principali commedie. 

Dopo questo fortunato esordio, è seguita una vasta trasposizione cinematografica del suo Corpus, che ha interessato tutti i generi e i registri possibili (non solo il melodrammatico), come il grottesco, il comico/commedia, il musical e il film d’animazione. Diversi sono i grandi registi che, direttamente o indirettamente, si sono confrontati con la sua opera. Ricordiamo Ingmar Bergman (Sorrisi di Una Notte d’Estate, 1955), Orson Welles (Macbeth, 1948;Otello, 1952); Akira Kurosawa (Il Trono di Sangue, 1957; Ran, 1985; rispettivamente trasposizioni di Macbeth e Re Lear), Roman Polanski (Macbeth, 1971), e anche il Woody Allen di Una Commedia Sexy in una Notte di Mezza Estate (1982), nella quale il modello non è solo Shakespeare, ma anche la precedente trasposizione bergmaniana della stessa commedia. Singolare invece la rilettura che Jean-Luc Godard fa di Re Lear (1987), film più funzionale al suo (di Godard) universo cinematografico che fedele allo spirito del testo teatrale. Film invece rappresentativo delle suddette prerogative dell’industria culturale è Shakespeare in Love (John Madden, 1998): le ben tredici nomination ricevute e i sette Oscar vinti la dicono lunga sulla grande fruibilità e fascinazione che ancora il repertorio shakespeariano e la sua stessa figura hanno sul grande pubblico. 

In tutto ciò, comunque, l’Opera di Shakespeare dimostra grande solidità e coerenza, in quanto tutti gli autori citati – nonché i principali film prodotti -, pur inglobando questa nella poetica complessiva del loro cinema, non vogliono discostarsi troppo dai testi originali e dalle loro immediate ricadute di significato, ovvero, più spesso, non lo possono fare. Le chiavi di tanto successo, che ha indotto autori e produttori in diversi campi della cultura a riproporre di continuo, lungo i secoli, le sue storie e i suoi personaggi, sono da ricercare certamente nell’universalità dei temi affrontati. 

Nel teatro di Shakespeare spiccano i motivi dell’amore (a volte folle, precursore di quello romantico di due secoli dopo), della lotta per il potere, del carattere illusorio della felicità e della precarietà della vita, della morte come epico compiersi dell’umano destino; il tutto vagliato dalla tradizione popolare medievale inglese, della quale recupera con intelligenza la dimensione magica, fantastica e irrazionale. Diversamente da quanto avviene nei classici greci e latini, in Shakespeare il fato non gioca alcun ruolo, cedendo il passo alle libere scelte degli individui, condizionate allora solo dal contesto sociale in cui si ritrovano a vivere. 

Questi aspetti di estrema modernità dei suoi caratteri sono, forse, il principale motivo della fortuna ultrasecolare della sua Opera, cui ha senz’altro contribuito la felicità del suo scrivere: testi con una struttura drammatica solida, di taglio classico, elegante, linguisticamente trasparenti quindi fruibili da ogni tipo di pubblico. Circostanze tutte che hanno fatto di William Shakespeare – post litteram, ovviamente – il più prolifico autore di soggetti per il cinema di sempre.