La celeberrima Creatura letteraria nata dalla fantasia di Mary Wollstonecraft Shelley ha quest’anno compiuto la bellezza di duecento anni. La peculiarità dell’anniversario sta nel fatto che la storia della Shelley, per le tematiche universali che contiene, anche se in parte asservite alle convenzioni del romanzo di genere, è ancora oggi spaventosamente attuale, e ancora lo sarà per lungo tempo, fino a quando l’umanità non avrà imparato che la diversità è ricchezza e non pericolo, che l’accoglienza dell’Altro – chiunque sia – è dovere morale prima che dettame politico e/o religioso.
La poetica del romanzo Frankenstein (o del Moderno Prometeo) è dunque semplice quanto profonda, la sua genesi storica è invece singolare. In quell’estate tempestosa del 1816 i casi della vita radunano, in una villa presso il lago di Ginevra, i già famosi poeti romantici Lord Byron e Percy Shelley, amante non ancora marito di Mary; la sorellastra di Mary Claire Clairmont, ex amante di Lord Byron, di lui ancora infatuata e tornata in auge per l’occasione; nonché tale John William Polidori, giovane medico personale di Byron e aspirante scrittore. Le fonti narrano di una tenzone letteraria.
Nella prefazione alla prima edizione del 1818 la stessa autrice annota: “Passai l’estate del 1816 nei dintorni di Ginevra. Il tempo era freddo e piovoso; la sera ci raccoglievamo attorno al caminetto acceso e ci divertivamo a leggere storie tedesche di fantasmi, che ci erano capitate per caso tra le mani. Queste letture destarono in noi un burlesco desiderio di emulazione. Due altri amici (una storia dei quali riuscirebbe al pubblico di gran lunga più gradita di tutto quello che io potrò mai dare alle stampe) e io decidemmo di scrivere ognuno un racconto che si fondasse su qualche evento soprannaturale. (…) Il racconto che segue è il solo che sia stato portato a termine.”
I due “altri amici” cui si fa cenno erano ovviamente Byron e Shelley, che abbandonarono la tenzone senza aver prodotto nulla di pubblicabile. Vide invece la luce delle stampe – nel 1819 – il racconto del dilettante John W. Polidori titolato The Vampyre. Opera minore, che poco aggiunge alla tradizione del gotico anglosassone, semplicemente infoltisce quel sottobosco letterario nel quale, anni dopo, trova ispirazione Bram Stoker per il suo Dracula (1897), romanzo polifonico di ben altro spessore. Invece la storia della Shelley ha fatto il giro del mondo varie volte. Il suo personaggio chiave a tutt’oggi sopravvive nella cultura occidentale, più volte reincarnatosi in forme diverse nei testi mediali e non dell’industria culturale contemporanea (nei fumetti soprattutto). Romanzo molto popolare già all’esordio del 1918, diventato nel corso del XIX secolo un apprezzato spettacolo teatrale (nell’adattamento di Peggy Webling e con Thomas Potter Cooke nei panni del mostro), la storia e la figura – soprattutto – di Frankenstein sono rese definitivamente immortali dal cinema nel XX secolo.
Il classico della Shelley vantava già tre adattamenti in epoca pre-sonoro, i primi due prodotti in Usa (omonimo, 1910; Life Without Soul, 1915), l’ultimo realizzato in Italia da Eugenio Testa nel 1920 (Il Mostro di Frankenstein). Ma l’immaginario collettivo sul mostro che ha rubato il proprio nome al suo creatore si fissa per sempre con il film, omonimo, di James Whale del 1931. Indimenticabile la maschera con cui Boris Karloff da volto e corpo alla Creatura, ancora oggi un copyright della Universal.
Fenomeno iconografico tutto novecentesco, dato che il romanzo della Shelley non contiene dettagliate descrizioni: l’orrore legato alla Creatura da lei partorita a Ginevra appartiene più all’immaginario legato al cinema che allo specifico del testo letterario, il quale tratta più di eventi sovrannaturali che di vicende orrorifiche e sanguinose in senso stretto. Prevale in esso il tema, etico, della scienza che travalica i confini del consentito (il sottotitolo lo indica chiaramente, evocando il mito di Prometeo che, avendo rubato il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, si ritrova da Zeus incatenato a una rupe ai confini del mondo); nonché l’idea, come conseguenza dell’inavvedutezza del dott. Victor Frankenstein, di una Creatura candida ma repellente, con una sorta di innocenza primordiale, corrotta dall’uomo che la respinge. Pertanto, nella Shelley, più etica e filosofia che horror.
Le migliori trasposizioni cinematografiche del Frankenstein (il citato Whale del 1931, il seguito La Moglie di Frankenstein del 1936, e altri classici) sono quelle che privilegiano i passaggi del romanzo meglio narrabili secondo il visivo specifico del cinema, come la celebre scena della creazione durante un romanticissimo (quindi gotico) temporale. Meno validi sono invece i film che tentano di riproporre anche il contenuto filosofico del romanzo, poiché tali temi necessitano per loro natura di verbosità, di ragionamento e di discorso, mentre il cinema con la verbosità, per suoi caratteri strutturali (poetici ed estetici), male si sposa.
Un esempio per tutti: il film di Kenneth Branagh del 1994, con un mostro (stranamente impersonato da Robert De Niro) troppo umanizzato e ciarliero. Meglio funzionano le produzioni a basso budget e di taglio popolare, ma con un apparato visivo di grande spessore cinematografico. In questo segmento, celebri sono le produzioni della britannica Hammer Film, specializzata nell’horror fantasy, i cui film hanno spesso l’aspetto di un esotico fumettone (magnifici!). Di questa si contano cinque titoli con la Creatura, girati dal bravissimo Terence Fischer tra il 1957 e il 1973; La Vendetta di Frankenstein, del 1958, il migliore. E poi – last but not least – il cambio di registro, cosa che ben testimonia la suddetta circolazione della Creatura in rivoli culturali di vario livello. Da segnalare senz’altro la parodia metaforica degli adepti di bottega di Andy Warhol (Il Mostro è in Tavola .. Barone Frankenstein, di Paul Morrissey, 1974); e poi il totale ribaltamento di senso, riuscitissimo, del capolavoro di Mel Brooks Frankenstein Junior (1974).
Una così vasta trasposizione cinematografica, di vario segno come sintetizzato sopra, testimonia in definitiva, meglio delle molte analisi critiche o sociologiche esperite, quanto il testo di partenza sia importante – almeno per la nostra cultura – e profondo. Con esso Mary Shelley ha davvero dato vita a una Creatura letteraria e cinematografica immortale.