Altro che Il più grande spettacolo del mondo (pellicola del 1952 sul circo firmata da Cecil B. DeMille e tra quelle che, a suo dire, da bambino lo avevano maggiormente affascinato): nel duplice ruolo di regista e di produttore, il più grande dispensatore di entertainment della seconda metà del Novecento; da un punto di vista non solo economico ma anche di immaginario popolare, una delle figure più influenti dell’intera storia del cinema; per tutto il pubblico (e non solo) che da più di quarant’anni entra in una qualunque sala di qualsiasi parte del globo, il cineasta hollywoodiano per antonomasia (e forse il più conosciuto in assoluto ancora adesso). «Più invecchio, più sento la responsabilità di raccontare storie che abbiano un significato più ampio. […] Cerco di fare film che diano allo spettatore il minor carico di lavoro e il maggior carico di piacere possibile. La maggior parte dei miei film funziona così. Invecchiando, tuttavia, sento il peso della responsabilità che deriva dall’utilizzo di uno strumento così potente […]. Certamente ho girato film su richiesta popolare, ma c’è una distinzione tra movie-making e filmmaking. Io voglio fare entrambi».
Lo storyteller della settima arte Steven (Allan) Spielberg – il David Lean delle ultime due/tre generazioni, che racconta di «gente normale in circostanze straordinarie» e con «il dono di rendere plausibile lo straordinario» (François Truffaut) – taglia oggi il traguardo delle settanta primavere e tra pochi giorni – venerdì 30 dicembre – arriverà finalmente anche in Italia la sua ultima fatica (è la trentunesima) per il grande schermo, Il GGG – Il grande gigante gentile, presentata fuori concorso alla 69ª edizione del Festival di Cannes lo scorso maggio.
Al di là dell’età alla quale ha rivolto la propria attenzione su questo testo per giovanissimi firmato da Roald Dahl (1916-1990), è davvero una curiosa coincidenza quella che aveva visto nel medesimo anno – il 1982 – l’allora già affermato sessantaseienne scrittore britannico dare alle stampe il suo libro e il trentaseienne wonder boy della New Hollywood assurgere al rango di personalità pubblica di statura mondiale grazie a E.T. – L’extra-terrestre, detentore del record di maggiore incasso della storia per i successivi undici anni, cioè fino all’uscita di Jurassic Park (preistorici lucertoloni a parte, un fulminante scambio di battute su tutti: «Dio crea i dinosauri, Dio distrugge i dinosauri, Dio crea l’uomo, l’uomo distrugge Dio, l’uomo crea i dinosauri» «I dinosauri mangiano l’uomo. La donna eredita la Terra»), una sfida giocata dunque tutta in casa (dovevano infatti fare ancora la loro comparsa sia Titanic che Avatar di James Cameron…).
Il 1993 è comunemente considerato una sorta di spartiacque nella parabola creativa di Spielberg, che nella primavera di quell’anno si attarda via satellite al montaggio (serale) delle immagini e degli effetti speciali della pellicola sui redivivi dinosauri con l’aiuto della Industrial Light and Magic dell’amico George Lucas (il quale, a fine anni Settanta, gli aveva pure fornito l’idea di un certo archeologo che si autofinanzia recuperando antichità in giro per il mondo…), mentre già si trova a Cracovia impegnato per le riprese (diurne) di Schindler’s List – La lista di Schindler, che consacra la sua maturità artistica: «[i]n ogni grande storia c’è una redenzione. Senza redenzione non c’è speranza. E se c’è una cosa di cui non posso fare a meno è la speranza. […] Questo è l’uomo che sono, e non posso sopravvivere senza redenzione nella mia vita».
Più che ricapitolare una carriera ormai patrimonio di un pubblico decisamente più vasto della sola schiera degli appassionati – come poter scordare, ad esempio, le due potenti e commoventi odissee rappresentate da L’impero del sole (1987) e A.I. – Intelligenza artificiale (2001) -, conviene provare a rivolgere lo sguardo dove lo sta attualmente spingendo il regista (quinto Indiana Jones a parte), cioè al progetto noto come The Kidnapping of Edgardo Mortara, adattamento per il grande schermo – firmato da Tony Kushner, per lui già sceneggiatore sia di Munich (2005) che di Lincoln (2012) – dell’omonimo romanzo del 1996 di David Israel Kertzer (Premio Pulitzer 2015 per la categoria biografia con un libro su Pio XI e Mussolini), pubblicato in Italia da Rizzoli come “Prigioniero del Papa Re”. Si tratta della vicenda che ruota attorno al piccolo ebreo bolognese Edgardo Mortara, un bambino di sei anni che la sera di mercoledì 23 giugno 1858 viene prelevato dalle guardie papaline e dai carabinieri per essere allontanato dalla sua casa: all’inquisitore di Bologna, il padre domenicano Pier Gaetano Feletti, risulta infatti che gli sia stato amministrato il battesimo in segreto (quindi all’insaputa degli stessi genitori) dalla domestica Anna in un momento in cui, essendo il piccolo molto ammalato, lo ha ritenuto in pericolo di vita. Secondo le leggi dello Stato Pontificio, Edgardo non può essere allevato in una famiglia di ebrei in quanto cattolico: viene così portato a Roma per perfezionare la propria educazione religiosa, tanto da diventare poi un sacerdote.
All’epoca il fatto – nel quale in molti (va da sé) hanno visto un emblema dell’intolleranza antiebraica che vigeva da secoli nella Chiesa – è diventato un vero e proprio caso politico, coinvolgendo alcuni personaggi chiave del processo di unificazione italiana allora in atto, tra i quali Cavour, Napoleone III e Pio IX. Nel cast artistico è data per certa la presenza di Oscar Isaac e Mark Rylance (alla sua quarta collaborazione con il cineasta di Cincinnati dopo Il ponte delle spie, il già citato GGG e Ready Player One, attualmente in post-produzione e dato in uscita per il dicembre 2017), mentre la lavorazione dovrebbe iniziare a Bologna a febbraio.
«Qualunque film di cui io abbia curato la regia, l’ho sempre trattato con estremo rispetto. Ho sempre creduto nelle storie che andavo a raccontare […]. Io per primo, in quanto regista, devo credere nel film»: questione di fede per questione di fede, inutile dire quanto sia già grande l’interesse circa il modo con il quale Steven “Schindler” Spielberg intenderà ancora una volta mantenere la propria.