Riflettere sul modo in cui la propria esistenza e le decisioni che essa comporta, sia piccole che grandi, incidono anche sulla vita del prossimo. Scoprire con i propri occhi come sarebbe il “mondo piccolo” che si abita, così soffocante nella sua apparente immutabilità (a maggior ragione se si nutrono progetti di evasione – pur indefiniti – verso altre realtà), se non si fosse mai nati: dallo sviluppo di una semplice, provocante idea (confluita in un’altrettanto semplice trama), ecco servita la più classica storia in celluloide del periodo natalizio, La vita è meravigliosa (It’s a Wonderful Life), la pellicola preferita – tra le proprie – del suo stesso autore («È il film che ho sempre sognato di fare»), Frank Capra (1897-1991), che – uscita nelle sale statunitensi tra il 21 e il 27 dicembre 1946 – compie quindi in questi giorni settant’anni. 

L’allora quasi cinquantenne regista, sceneggiatore e produttore, figlio di contadini siciliani e maestro indiscusso dell’american way of life degli anni Trenta e Quaranta sul grande schermo, aveva già firmato alcuni tra i più famosi titoli dell’epoca, come Accadde una notte (It Happened One Night, 1934), È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town, 1936), Orizzonte perduto (Lost Horizon, 1937), L’eterna illusione (You Can’t Take It with You, 1938), Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington, 1939), Arriva John Doe (Meet John Doe, 1941) e Arsenico e vecchi merletti (Arsenic and Old Lace, 1944), collezionando in sei anni ben tre premi Oscar come miglior regista (per la prima, la seconda e la quarta delle pellicole appena citate). 

Non sorprende quindi che la sua autobiografia – uscita nel 1971 e la cui prima edizione italiana è stata pubblicata giusto lo scorso luglio dalla minimum fax – si chiami “Il nome sopra il titolo”: si tratta infatti del primo director hollywoodiano ad aver avuto inserito nei crediti di apertura il proprio nome prima di quello del film. Solo lui avrebbe potuto immaginare un’opera con un prologo direttamente… in paradiso. È qui che l’orologiaio Clarence Obody (Henry Travers) – un «angelo di seconda classe» in attesa delle ali da duecento anni, la cui «intelligenza non è superiore a quella di un coniglio» ma la cui «fede è quella di un bambino, è pura» – riceve dalle “altissime sfere” l’incarico di vegliare durante la notte di Natale su George Bailey (James Stewart), un uomo semplice e molto generoso, padre di quattro figli, che vive a Bedford Falls, quieta cittadina di provincia, e sta attraversando un improvviso momento di prova per un dissesto finanziario, “assecondato” dal suo avversario (non solo lavorativo) di sempre, il signor Henry Potter (Lionel Barrymore), «l’uomo più ricco e avaro di tutta la contea», il cui «animo […] si inaridisce col crescere dei suoi malanni»: come Clarence dice a George verso la fine di quello che è a tutti gli effetti il peggior incubo a occhi aperti che possa capitare, «[t]i è stato fatto un gran regalo: vedere come sarebbe stata la vita qui senza di te. […] Strano, vero? La vita di un uomo è legata a tante altre vite. E quando quest’uomo non esiste, lascia un vuoto». 

Frank Capra è sinonimo di storie edificanti, dal contenuto onesto e positivo. È il 1945 quando un suo collega della casa di produzione e distribuzione RKO Pictures gli mostra il racconto “The Greatest Gift” (“Il dono più grande”), scritto da Philip Van Doren Stern, che – non riuscendo a venderlo – aveva deciso di farne stampare duecento copie per includerle nei suoi auguri di Natale. Nel 1943 la casa aveva comprato la storia per diecimila dollari, ma, nonostante venisse considerata interessante, non si sapeva come ricavarne qualcosa di utile per il grande schermo. Vengono allora commissionati tre tentativi di sceneggiatura affidati ad altrettanti scrittori, Marc Connelly, Clifford Odets e Dalton Trumbo. Si può facilmente immaginare come in questo tipo di lavoro le linee narrative si sviluppino in maniera alquanto curiosa e ciascuna delle tre figure coinvolte contribuisca in modo originale con aspetti che confluiscono in un’unica versione finale, quella che Capra stesso – molto commosso dal racconto di partenza, il cui spirito (secondo lui) era stato tradito dai tre sceneggiatori – decide poi di intitolare “It’s a Wonderful Life”, chiamando Albert Hackett e Frances Goodrich per rifinirla. 

Al momento di assegnare i ruoli del cast artistico, ecco invece palesarsi, per la parte del protagonista, un carissimo amico come James Stewart, che aveva lavorato con lui nei già citati L’eterna illusione e Mr. Smith va a Washington. Davvero difficile pensare a come un titolo oggi così apprezzato, non venne all’inizio accolto troppo bene in sala: alcuni dicono per colpa delle bassissime temperature che si registrarono quell’inverno sulla costa orientale, ma altri ricordano anche – nonostante sia considerato uno dei film più commoventi mai realizzati – come i primi spettatori lo trovarono un po’ troppo deprimente, stante la stagione natalizia. È comunque storia il fatto che il film non riuscì a stabilire un grosso incasso, venendo poco dopo ritirato e presto dimenticato. 

La sua successiva e sempre crescente popolarità fu dovuta a un intoppo legale: negli anni Settanta i suoi diritti andavano rinnovati, ma per errore divennero di uso pubblico. Una delle ovvie conseguenze fu che le reti televisive statunitensi erano libere di trasmetterlo a piacimento senza pagarne i diritti per ogni passaggio su piccolo schermo: nel giro di pochissimo, La vita è meravigliosa diventò così frequente in televisione che ormai, in sua assenza, la stagione festiva non sembrava più la stessa. 

Come più tardi Frank Capra avrà modo di ricordare al microfono di un intervistatore, «[l]o so che può sembrare strano, ma, alla fine, nel film, traspare più di quanto io intendessi. E questo film ci rivela più di quanto fosse stato scritto. È come se ci rivelasse molti più pregi di quanti noi pensavamo avesse. E fu una sorpresa: non ce l’aspettavamo affatto. E forse questa è la ragione per cui il film rivela molto di più di quello che credevamo avesse. Molto di più». Davvero uno dei (tanti) “miracoli” (non solo) della storia del cinema.