Compie in questi giorni ottant’anni il capolavoro primo della cinematografia di Charlie Chaplin, Tempi Moderni (Modern Times, 1936). Costruito secondo la solita commistione tra comico e melodramma, tipica dei lungometraggi chapliniani, questo film è incentrato sul tema dell’alienazione come esito della modernità, e contiene una satira feroce, anche se in punta di gag, della società industriale del primo Novecento.

A quasi dieci anni dall’avvento del sonoro, Chaplin ancora gira secondo gli stilemi del cinema muto (nei titoli di testa viene precisato che si tratta di una “pantomima”), scelta che potrebbe apparire leziosa o insensata, ma che corrisponde a una chiara cognizione del modo migliore per illustrare il tema suddetto. Si consideri inoltre che Chaplin era all’epoca un’autorevolissima figura del cinema hollywoodiano e mondiale, e diventato anche produttore si era messo nelle condizioni di poter fare esattamente il proprio cinema.

E allora, con questo suo ultimo lungometraggio muto, utilizza a rigore gli schemi della pantomima per andare oltre al melo-comico giocato sulle singole gag: concepisce una sorta di balletto di corpi e di macchine, organizzato come un unico grande pamphlet visivo, portando nel suo mondo-cinema e attagliando al suo personaggio-maschera Charlot, qui alla sua ultima commovente apparizione, lo spunto tematico dell’Uomo in conflitto con la Società del Progresso, già peraltro presente in A Me la Libertà del francese René Clair (1931).

Pur sotto una superficie comica in sé mirabile e spettacolare, le istanze sociali appaiono infatti chiarissime in Tempi Moderni, tanto che fu dai più bollato come comunista e sovversivo, e incassò a sufficienza solo nell’Europa più liberale (Francia e Inghilterra), mentre negli Usa fu un fiasco al botteghino e in Germania subì l’ostracismo del regime.

Valutato con gli occhi di oggi Tempi Moderni risulta un testo filmico di importanza immensa, che va ben oltre le intenzioni immediate dell’autore riscontrabili nella citata critica sociale. Esso si colloca a valle di una tradizione letteraria, ottocentesca, centrata sulla poetica (ed estetica) dell’Automa quale macchina prodigio di tecnica fatta dall’uomo a sua immagine e per il suo servizio, che parte sostanzialmente da Eva Futura (L’Eve Future, Villiers de L’Ise-Adam, 1886) e fa una tappa fondamentale ne L’Automa Insanguinato (La Poupée Sanglante, 1923, di Gaston Leroux, scrittore poliedrico, autore anche del Fantasma dell’Opera). Il film trova quindi le sue premesse immediate nel passo successivo di tale poetica: quello del primo Novecento relativo al problema della macchina che si ribella all’uomo creatore e lo fagocita, idea che consegue a quella dell’alienazione data dalla modernità industriale (si ricordi il Moloch di Cabiria – Pastrone, 1914 – ripreso da Fritz Lang in Metropolis, 1927).

L’importanza del testo chapliniano arriva poi fino all’intuizione in lungimiranza di un’altra poetica, successiva e conseguente, quella che si svilupperà nel secondo dopoguerra sull’idea delle macchine come replicanti dell’uomo, da esso indistinte, vere e false insieme; idea che genera molteplici ricadute narrative, filosofiche ed etico-morali, e che prende le mosse da quella letteratura di genere di autori come Philip K. Dick, Jack Williamson e Isaac Asimov, e da tutto il cinema tratto da essa, soprattutto Blade Runner (R. Scott, 1982).

In questo ampio contesto il film di Chaplin si situa con forza, al contempo semplice – nella vicenda narrata – e complesso invece nei richiami simbolici (più evidenti nelle sequenze in fabbrica) dell’uomo schiavo dei meccanismi automatizzati, dell’uomo che viene risucchiato (letteralmente, in senso visivo) dagli ingranaggi della macchina, quindi del “sistema”.

Oltre a ciò, in questo film forse più che in altri dello stesso periodo assistiamo a scene veramente – e giustamente – entrate nell’immaginario del Cinema di sempre. Esempio ne è la breve sequenza iniziale con l’analogia visiva tra una mandria di pecore e il flusso di uomini-corpo che esce dalla metropolitana; quasi un omaggio al cinema delle attrazioni del maestro Ejzenstejn, che vagamente richiama anche le scene in esterni de La Folla (K. Vidor, 1928, il quale su un piano personale propone lo stesso dilemma sociale del film di Chaplin: essere padroni o meno del proprio destino). E poi ricordiamo la macchina per il pranzo che consente all’operaio di nutrirsi senza distoglierlo dal suo compito; e infine la celebre corsa schizoide di Charlot con le chiavi inglesi in mano, pronto a svitare ogni bottone che trova sulla sua strada. Come già precisato, sono tutte gag visive che, collaudatissime nei loro meccanismi comici, servono sia di per sé, sia soprattutto per sostanziare i temi cardine del film.

Arriviamo con questo a riconoscere una caratteristica del regista e autore Charlie Chaplin, che è forse quella che lo rende così importante nella storia della settima arte; la quale, lo ricordiamo per inciso, è l’arte tipica del Novecento soprattutto perché – unica fra tutte – è quella nata con la caratteristica a sé connaturata della riproducibilità tecnica (di cui al celebre saggio di Walter Benjamin del 1936). Chaplin è stato, come pochi altri, sia alto che popolare, secondo una sua precisa scelta di stile, molto intelligente quanto peculiare. Egli ha saputo parlare a tutti nello stesso modo, e nello stesso testo, tramite la polifonica maschera di Charlot, conciliare gli opposti apparentemente inconciliabili della cultura di massa e della cultura superiore. Soprattutto per questo dobbiamo oggi celebrare Tempi Moderni come il suo film più riuscito, il suo capolavoro, il suo più alto lascito alla Storia dell’arte cinematografica.