I sessant’anni dell’uscita di Sentieri Selvaggi (The Searchers, 1956) riuniscono in un’unica occasione il ricordo di due pilastri della storia del cinema: uno dei migliori western del periodo classico, che secondo alcuni (Scorsese, Cimino e altri della New Hollywood) coincide con uno dei più grandi film di tutti i tempi; e uno dei migliori registi, l’americano del tipo wasp ma di origine irlandese John Ford (1895-1973). Impossibile raccontare di The Serachers senza imbattersi nell’inconfondibile marchio stilistico del suo celebre autore, senza restare immersi, coinvolti anche emotivamente nella poetica dell’eroe solitario che si sacrifica per gli altri, così americana e così tipica del maestro.
Se, come sosteneva il critico dei critici Andrè Bazin, il western è il cinema americano per eccellenza, allora John Ford riveste un ruolo chiave nel panorama culturale novecentesco di quel Paese, soprattutto per quella cultura popolare che viene fruita con l’intrattenimento – ma sempre di alto livello stilistico – attraverso il media cinema. Ford è invero uno dei fondatori di quell’immaginario che prende forma dai vasti spazi delle praterie, dai canyon e dai grandi fiumi da attraversare, che si nutre di banditi e bari, di diligenze inseguite dagli indiani, di fiere donne da difendere o conquistare, di tutori della legge tristi e solitari; è il regista che più di altri (pur importanti come Hawks, John Sturges, Zinnemann, Arthur Penn, il primo Peckinpah) ha contribuito a fare del western uno strumento culturale di unificazione degli Stati Uniti d’America. Il cinema di John Ford porta infatti i valori fondanti l’unità nazionale, narra di individui orgogliosi soggetti/oggetto di diritti, responsabilità e doveri; ma è anche critico con la storia ufficiale, rigetta l’idea della civilizzazione come progresso morale e materiale automaticamente portato a tutti.
Alla poetica accennata si unisce in The Searchers, come in altre riuscite occasioni, una peculiarità stilistica in bilico tra classico e prefigurazione del moderno. Un montaggio con pochi primi piani e lo sguardo in profondità di campo erano in genere evitati nel cinema classico perché complicazioni nella lettura del film, ma per Ford erano strumenti di stile fondamentali – classici e moderni insieme – per proporre la sua idea di cinema, che doveva essere portatore della complessità del mondo e della vita.
E infatti il film si apre e si chiude con la stessa celeberrima inquadratura, nella quale il protagonista Ethan Edwards (un John Wayne in grande spolvero) è visto dall’interno di una stanza buia che si apre sul paesaggio: la sua sagoma si staglia su di esso mentre si avvicina (all’inizio), e poi quando (nel finale) si allontana verso il suo destino di orgogliosa solitudine. Ethan è un reduce dalla Guerra di Secessione, sconfitto nelle fila confederate, forse disertore e forse assassino, ma nondimeno eroe fondatore del “Grande Paese”, in ciò figura fordiana per eccellenza. In mezzo la storia di una ricerca: Ethan e il mezzosangue Martin (Jeffrey Hunter), adottato dalla famiglia del fratello di Ethan sterminata dai Comanche, cercano la piccola Debbie (Natalie Wood) rapita dagli stessi. Quando la ritrovano, dopo alcuni anni, Ethan in odio agli indiani la vorrebbe uccidere, considerandola ormai una di loro. Ma alla fine in lui prevalgono senso del dovere e umana pietà: toccante il finale con Ethan che riporta in braccio la ragazza a casa, prima di riprendere la strada del suo ramingo destino.
Celebre anche la scena del ritorno di Ethan e Martin alla fattoria degli Edwards violata dagli indiani, in fiamme (citata da George Lucas in Guerre Stellari, il primo della saga, quello del 1977), che costituisce l’incipit della vicenda del film, ma anche di una ricerca che va oltre quella del film stesso: in parte riguardante il senso di famiglia che tocca le corde dell’immaginario più popolare, e in parte simboleggiante i temi già ricordati, cari alla la poetica del regista.
La regia, in questo film di spazi e di memoria, è molto abile nel rendere il senso del trascorrere del tempo e il mutamento delle stagioni, metafore di un Paese che cambia e procede verso la “nuova frontiera” per ferrea volontà di eroi ordinari, portatori di personali imperfezioni, ma votati ai grandi valori della Libertà e della Giustizia.
Il film, che all’uscita ebbe svariate reazioni anche di segno diametralmente opposto, soprattutto per la maggior complessità tematica rispetto ad altre prove più lineari di Ford, prestò il fianco ad accuse di sotterraneo razzismo nei confronti del popolo indiano; idea che dopotutto permea – anche se più come uno stereotipo narrativo che come una effettiva posizione civile – l’intero genere del western classico. Invero, mentre per molto del western pre revisionismo in stile New Hollywood questo è abbastanza assodato, tale visione non si applica al cinema di John Ford. Se in altre storie gli indiani sono massa indistinta e incarnano i nemici della civiltà, per lui non è quasi mai così; gli indiani di Ford sono invece i vecchi e nobili abitanti dell’America, rappresentano “i Troiani di un’Iliade moderna” (Bernardi 2007), i perdenti ma leali portatori di una cultura di valori rispettabili. Il suo cinema, prima di esaltare gli epigoni della nuova America, rende l’onore delle armi agli eroi sconfitti di quella vecchia.