Per oltre un miliardo di fedeli cattolici di ogni parte del mondo quella che si sta avviando alla conclusione è la Settimana più Santa di tutto l’anno, anch’esso già Santo, visto che si è nel pieno del Giubileo Straordinario della Misericordia, fortemente voluto da papa Francesco. Nelle primissime righe della bolla Misericordiae Vultus, prima ancora dell’annuncio della sua indizione, si trova espresso in maniera succinta – ma non per questo meno densa – il contenuto della fede professata: «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth. […] [Egli] con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona rivela la misericordia di Dio. Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. È fonte di gioia, di serenità e di pace. È condizione della nostra salvezza».

Un richiamo a guardare con occhi nuovi, come fosse la prima volta (e per molti lo è davvero), a riconsiderare libera da incrostazioni e a lasciarsi sfidare da quella che è “la più grande storia mai raccontata”. The Greatest Story Ever Told è il titolo originale della pellicola del 1965 firmata da George Stevens. Uno di quei film che in una settimana come quella in corso era ed è (e sarà?) consuetudine trovare proposto in prima serata nel palinsesto televisivo, unitamente ad altri, come l’intramontabile Ben-Hur (1959) di William Wyler. A proposito di quest’ultimo, solo tempo dopo le prime, “scontate” visioni, l’interesse è caduto sul sottotitolo con il quale l’opera è (anche) conosciuta in ambito angloamericano: A Tale of the Christ, “una storia di Cristo” (come il libro di fine Ottocento da cui è tratto).

Come si sa, le vicende che vi sono narrate ruotano intorno all’ebreo Giuda Ben-Hur (Charlton Heston) e alla sua sete di vendetta per una condanna ingiustamente scontata per colpa di un ex amico di gioventù, il romano (e quindi occupante) Messala (Stephen Boyd). Queste vengono mostrate come in ideale parallelo con quelle di Gesù di Nazareth, che di tanto in tanto toccano infatti quelle di Giuda. Come nella sequenza del loro primo incontro, la celebre “Acqua della Vita”…

NAZARETH – Gesù è mostrato solo di spalle: il regista ci nega (intelligentemente) il controcampo su quel volto, su quello sguardo che si posa sugli uomini (sulle loro azioni, sulle loro sofferenze, sulle loro miserie), sentendosi chi rivitalizzato, chi scrutato nel profondo. Quanti film legati alla figura di Cristo hanno ormai tolto ogni tipo di mistero rispetto al come e al cosa di quell’uomo (il suo aspetto, i suoi gesti, la sua storia). Qui la scelta del regista resta invece ancora provocante, perché chiede un lavoro allo spettatore. Perlomeno il lavoro di una domanda: quale poteva essere il contenuto, la portata, la consistenza di quello sguardo? Della lunga fila di galeotti che lascia il posto, Ben-Hur è l’unico – da quel punto in avanti – a volgersi, a tentare di non staccare lo sguardo dall’uomo e dal luogo con cui e dove gli è capitato quello che abbiamo visto: un incontro destinato a segnargli la vita.

Non a caso questa sequenza è stata parodiata in una delle più gustose puntate de “I Simpson” (“A Star is Burns”, diciottesimo episodio della sesta stagione, andata in onda negli USA il 5 marzo 1995) quando, in occasione del festival del cinema di Springfield, anche il famigerato signor Burns non fa mancare il proprio contributo filmato (manco a dirlo spudoratamente autocelebrativo) dal titolo A Burns For All Seasons (in riferimento al film premio Oscar 1966 diretto da Fred Zinnemann). In tale sequenza il controcampo è bello che mostrato, con tanto anche di cono di luce che va ad illuminare colui che Giuda Ben-Hur definisce «il re dei re». Inutile dare conto dei fischi del pubblico in sala…

“LA SETE” – Giuda è ormai rocambolescamente rientrato in patria e vi incontra Baldassarre, uno dei Re Magi: «Un brav’uomo mi porse dell’acqua e ripresi a vivere. Avrei fatto meglio a spargerla sulla sabbia: è rimasta la sete!» Cosa resta quindi a frapporsi tra Giuda e quel ricordo lontano eppure ancora così vivido? Il suo “progetto”: lo spirito di vendetta verso Roma che lo ha ingiustamente condannato – e la madre e la sorella lebbrose con lui. Gesù (mostrato ancora di spalle) sta per iniziare il Discorso della Montagna mentre vediamo Giuda sullo sfondo che taglia a lunghe falcate la campagna, oltre il ruscello che divide anche spazialmente l’inquadratura.

LA PASSIONE – La fedele Tirzah spera di ottenere la guarigione delle donne della casa di Hur grazie a Gesù e cerca di portarle alla Sua presenza. Ma a Gerusalemme si vivono ormai gli episodi finali della Passione. Giuda, unitosi a loro, riconosce l’uomo di Nazareth e lo segue con il resto della folla fino alla fine: ecco quindi il sangue che cola dal corpo trafitto e che, dall'”albero della vita”, irrora la terra, insieme ai rivoli d’acqua creati dalla tempesta e i miracoli conclusivi (la guarigione della famiglia e la “conversione” di Giuda). L’ultima inquadratura è la vista delle tre croci del Calvario, sotto il quale si vede un pastore che porta al pascolo le sue pecore: da quel luogo una nuova compagnia ha iniziato a percorrere le vie del mondo.

Un’immagine come quella appena accennata è stranamente rinvenibile anche nel finale di un’opera più recente, Jesus Christ Superstar (1973, Norman Jewison), quando la variopinta compagnia di attori che ha allestito nel deserto la vita di Gesù se ne va in maniera decisamente diversa da come era arrivata: in controluce, su una collina, vediamo piantata quella croce, sotto la quale transita, qui pure, una figura indefinita ma seguita da un gregge, a chiudere un film che nel 1998 è stato definito «forse a tutt’oggi […] il più felice tentativo hollywoodiano di parlarci di Gesù» (Leandro Castellani). La passione di Cristo (2004, Mel Gibson) era ancora di là da venire…