La Paramount Pictures ha diffuso pochi giorni fa il primo trailer ufficiale di Ben Hur, nuovo adattamento del romanzo di Lew(is) Wallace Ben-Hur: A Tale of the Christ (1880) firmato ora dagli sceneggiatori Keith Clarke (The Way Back, 2010) e John Ridley (12 anni schiavo, 2013) e remake del kolossal del 1959 diretto da William Wyler e interpretato da Charlton Heston, a proposito del quale si è qui già scritto. Per l’occasione le redini (termine alquanto appropriato, visto il titolo in questione) del nuovo film – che uscirà negli Stati Uniti il 12 agosto e (si dice) più fedele al romanzo di Wallace – sono state affidate al regista russo-kazako Timur Bekmambetov (1961), mentre le riprese sono state effettuate in Italia, tra Matera e Cinecittà.
Se quest’ultima, la cosiddetta “Hollywood sul Tevere”, era stata la vera e propria fucina del suo celebre (e celebrato: vincitore di undici Premi Oscar) precedente, la prima è invece una città già al centro di altre famose produzioni cinematografiche legate alla figura di Gesù: Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) e La Passione di Cristo di Mel Gibson (2004). Stante la storia principale – quella che vede fronteggiarsi il principe ebreo Judah Ben-Hur e il fratello adottivo Messala -, resta la curiosità di capire come il rifacimento abbia affrontato le sequenze più esplicitamente dedicate al Nazareno.
Nel precedente articolo si è fatto cenno a incontri rigeneratori, traiettorie di sguardi e controcampi “negati”, dinamiche che si sono volute rintracciare in tre sequenze del Ben-Hur di Wyler. Passiamo ora al “corsaro” Pasolini, la cui sensibilità poetica era ovviamente lontanissima dalla magniloquenza hollywoodiana: «Io non credo in Dio. Però, di un fatto devo tener conto: la lettura del Vangelo di Matteo mi ha veramente sconvolto. E c’è un altro fatto: che non posso continuare a vivere senza farne una trascrizione cinematografica». Al fondo, in questo caso, non c’era altro motivo che il personale sconvolgimento suscitato pure qui da un “incontro”. Ecco come lo ha restituito in immagini…
L’ADORAZIONE DEI RE MAGI – La sequenza è di fatto muta, commentata solo dallo spiritual “Sometimes I feel like a motherless child”: più avanti si sentiranno anche “Ach, ty step’ širokaja” (“Ah tu, vasta steppa”), un canto popolare russo, e un “Gloria” congolese, quasi come a voler affermare – al di là di essere indice dell’acuta intelligenza e della sterminata cultura del suo autore – che tutto c’entra, tutto può servire per raccontare una storia così (per l’appunto “la più grande storia mai raccontata”). Sequenza muta, si diceva. Pasolini fa solo vedere gente che o è venuta a vedere e ad adorare o è già lì, quindi assiste e, assistendo, fissa il proprio sguardo. Si pensi anche allo zoom abbastanza violento che stringe sul volto del paggio di uno dei Re Magi giunto con il suo dono. Nella scena in questione sono inquadrati non pochi volti che non hanno altra giustificazione oltre quella di essere lì e guardare: può apparire una constatazione banale, ma questo è un film dove ci sono moltissimi attori non professionisti e comparse il cui unico contributo è un loro sguardo, prontamente catturato dalla macchina da presa (mdp) di Pasolini.
LE CHIAMATE – Si assiste all’inizio della vita pubblica di Cristo commentato dal già citato canto popolare russo, le cui parole risultano molto significative visto quanto si sta mostrando: «Ah tu, vasta steppa, steppa sconfinata. Ah tu Volga madre, libero Volga. Oh, ma è l’aquila della steppa che si leva in volo, è il cosacco del Don che si lancia a briglia sciolta. Oh, non volare, aquila, radente a terra, e tu, cosacco, non restare presso la riva». Le immagini sono quelle delle chiamate dei primi quattro, sulle rive del lago di Tiberiade: «Venite con me che vi farò pescatori di uomini!». E il canto: «Oh, non volare, aquila, radente a terra, e tu, cosacco, non restare presso la riva». Ovvero: siete fatti per una grandezza; lasciate quel che state facendo, quel che pensate di sapere (il vostro “progetto”, come per Giuda Ben-Hur); venite, restate con me. E ancora lo zoom sui volti e il dettaglio degli occhi di quelli appena chiamati (Giovanni soprattutto, che ritornerà più avanti): sguardi a fissare quell’uomo e quell’istante che sconvolgeranno le loro vite. A seguire le scelte di ripresa che Pasolini effettua – girando con la mdp in spalla (lo si intuisce dalle immagini leggermente traballanti) o facendo guardare Enrique Irazoqui (universitario catalano diciannovenne, di passaggio a Roma, cui affidò il ruolo di Gesù adulto) direttamente in mdp – mettono più di una volta lo spettatore nella condizione di seguire gli eventi in soggettiva.
I PROCESSI – Qui si può assistere a un vero e proprio saggio del cosiddetto «discorso indiretto libero» pasoliniano, in quanto il regista ci fa vivere anche i due processi a Cristo, dapprima nel palazzo di Caifa e successivamente in quello di Pilato, da veri e propri astanti (come chiaramente indicato dalla distanza della mdp dalle immagini e dai dialoghi ripresi e dal sovrapporsi delle teste dei presenti nell’ambito del campo inquadrato), quasi fossimo (e l’autore per primo) testimoni “qui ed ora” di ciò che sta accadendo davanti a noi. Ed ecco quindi spiegati di nuovo i dettagli degli occhi di Giovanni, un chiaro riferimento a queste indiscutibili origine e natura del testo evangelico, come se il regista stesse affermando che egli pure si è dovuto fidare di uomini che hanno registrato quello che è ora in grado di poter mostrare, ovvero la possibilità di «narrare il Vangelo attraverso gli occhi di qualcun altro che non sono io».
Un’opera che rappresenta la prova – non solo linguistica o cinematografica – più esplicita e compiuta del «discorso indiretto libero» di un artista scosso da un “incontro” – e, insieme, dalla sua stessa, paradossale mancanza -, un uomo che considerava l’Ascensione «il momento più sublime di tutta la storia evangelica: il momento in cui Cristo ci lascia soli a cercarlo».