«12 maggio. Oggi a Cannes è arrivato il turno di Sacrificio. Michal [Leszczylowski, aiuto regista e montatore del film, ndr] ha telefonato stamattina per dirmi che durante la proiezione per i critici, molti piangevano. […] Ma quella importante sarà la proiezione delle dieci di sera per il pubblico e la giuria. […] Sono molto debole. Dovranno farmi delle trasfusioni di sangue, perché ho pochissimi eritrociti. […] 19 maggio. Ha telefonato Anna-Lena [Wibom, produttrice del film per conto dello Svenska Filminstitutet, ndr]. La giuria non è molto favorevole. Quattro voti sono a favore del nostro film, quattro sono contrari e tre non si sono pronunciati. Al film sono già stati assegnati: 1. Il Premio della Critica Internazionale FIPRESCI [ex aequo con Il declino dell’impero americano del canadese Denys Arcand, ndr]. 2. Il Premio Internazionale dei Giornalisti. 3. Il Premio della Giuria Ecumenica. […] Allora niente Palma [assegnata a Mission (The Mission) di Roland Joffé, suo secondo lungometraggio dopo Urla del silenzio (The Killing Fields, 1984), ndr], ma il Gran Premio Speciale della Giuria. Sembra che i giornalisti e i critici si siano indignati e vogliano protestare. […] 22 maggio. La stampa è abbondante. Tutti sono indignati. Mitterrand in persona, parlando in TV, ha rimproverato aspramente il Festival di Cannes. Sto male: la tosse, la gamba destra è insensibile, mi duole la schiena».
È il 1986 e così nei suoi “Diari” (più propriamente “Martirologio”, cioè elenco delle sofferenze) Andrej Arsen’evic Tarkovskij – che ha già ingaggiato la propria battaglia contro il tumore che lo spegnerà quello stesso anno, nella notte tra il 28 e il 29 dicembre – registra ben lontano dal tappeto rosso della Croisette gli aggiornamenti sul cammino nell’ambito della 39ª edizione del Festival di Cannes della sua ottava e ultima opera, Offret/Sacrificatio, il cui titolo originale è un termine ecclesiastico che significa “offerta del sacrificio”. In proposito, sempre nei “Diari”, egli ha modo di appuntare questa ulteriore nota esplicativa: «Il sacrificio: l’unica modalità di esistenza della personalità».
Il 5 marzo di quattro anni prima il cineasta vi aveva anche trascritto un apologo tratto da “Vite e detti dei Padri del deserto” – che, parafrasato, chiude anche il suo più importante scritto teorico sul cinema dal titolo “Scolpire il tempo”, in cui ha raccolto, ampliandoli, alcuni articoli apparsi in rivista in Unione Sovietica: «Un giorno un anziano nativo di Thivanda, dal nome di Pavve, prese un albero secco, lo piantò sulla montagna e ordinò a Giovanni Colobos di bagnare ogni giorno quell’albero secco versando un secchio d’acqua, sinché l’albero non fruttificasse. Ora, non c’era dell’acqua se non lontano di là: bisognava partire il mattino per riportarla la sera. Alla fine del terzo anno, l’albero prese vita e diede frutti. Il vecchio colse un frutto e, portatolo alla chiesa dei fratelli, disse loro: “Avvicinatevi e assaporate il frutto dell’obbedienza”». Una breve parabola che costituisce anche la cornice all’interno della quale è ritagliata la vicenda narrata in Sacrificio.
Il film inizia con il più lungo piano sequenza dell’autore, un campo lungo di un uomo che, raccontando questo apologo sulla riva del mare, sta piantando un albero secco con il figlioletto (che chiama solo Ometto), muto per un’operazione alla gola. Si tratta di Alexander, che vive in una casa isolata dal resto del mondo con la moglie, i due figli e le due domestiche. Lo stesso giorno – è il suo compleanno – dalla televisione pare arrivare la conferma di una catastrofe nucleare. Sconvolto, egli recita in ginocchio il Padre Nostro, pregando Dio di preservare tutti i suoi cari e rinunciando in cambio a tutti i propri beni. Apparentemente esaudito, dà quindi fuoco alla propria casa per poi essere trascinato via in ambulanza, ritenuto un folle. Solo allora il figlioletto, innaffiando l’albero secco dell’inizio, ritrova la parola: «”In principio era il Verbo”. Perché, papà?» Domanda che chiude il film, prima della dedica finale di Tarkovskij: «A mio figlio con speranza e fiducia».
Tra i giurati di quell’anno, presieduti dal regista Sydney Pollack, si possono contare il cantante Charles Aznavour, l’attrice Sônia Braga, il direttore della fotografia Tonino Delli Colli, il regista István Szabó e lo scenografo Alexandre Trauner. Come già anticipato attraverso le parole dello stesso cineasta, il loro verdetto in merito alla Palma d’oro viene immediatamente attaccato dalla critica festivaliera in maniera anche feroce, arrivando a scrivere che la giuria avrebbe preso la sua decisione prima ancora che la copia della pellicola poi risultata vincitrice arrivasse a Cannes.
La presenza in concorso – unitamente a quelli già citati – di altri film quali Thérèse di Alain Cavalier (liberamente ispirato alla vita di Teresa di Lisieux, Premio della giuria e Menzione speciale del Premio della giuria ecumenica) fa però levare anche qualche voce contro il pericolo di “santificazione” di un certo cinema considerato accademico (se non addirittura tedioso), destinatario di riconoscimenti bollati come troppo intellettuali e poco attraenti, senza lasciare margini di spazio alla vera audacia.
Si può certo discutere e dividersi circa l’esito espressivo finale, ma se non è da considerarsi audacia quella costantemente ricercata dal cineasta russo non si saprebbe proprio dove altro rintracciarla in quello scampolo di anni Ottanta. Ovviamente ben consapevoli della nettezza della sua opinione in proposito: «Non sono in grado di girare film per il grande pubblico, come fa per esempio Spielberg; mi terrorizzerebbe, anzi, scoprire di esserne capace. Considero il cinema un’arte e un’opera d’arte non può essere compresa da tutti… L’artista non ha il diritto morale di abbassarsi a un certo livello medio, esistente in astratto, in nome di una malintesa maggiore comprensibilità…». La sua densissima arte visiva era come la prua di una nave: venticinque anni dopo la Palma d’oro è toccata al mistico Terrence Malick.