Nella sua introduzione a “Ombre che camminano. Shakespeare al cinema” – il volume da lei curato in occasione della seconda parte della retrospettiva organizzata nell’ambito del XVI Bergamo Film Meeting nel marzo 1998 – Emanuela Martini esordisce: «C’è un vecchio grosso, con la faccia ridente e i vestiti della festa: si fa largo tra la folla di cortigiani e saluta felice il suo giovane amico, che è diventato re. Ma il giovane re lo guarda dall’alto del suo ruolo raggelante e lo ripudia: “Non ti conosco, vecchio. Inginocchiati e prega. Come mal s’adattano i capelli bianchi a un dissoluto e a un buffone!”. E la faccia del vecchio stramazza sotto il colpo, si disfa, mentre nei suoi occhi passa il dolore di un cuore spezzato. Sir John Falstaff muore qui, nella scena più commovente di tutto il cinema shakespeariano». Più avanti, nella filmografia posta tra le appendici, la pellicola da cui è tratta questa sequenza ha una sola, brevissima riga di commento, oltre i consueti titolo, origine, anno, cast tecnico e artistico e durata: «Il più shakespeariano di tutti i film shakespeariani».

Un’opera che – presentata in concorso al XIX Festival di Cannes nel maggio 1966 – vince il Premio del ventesimo anniversario e il Grand Prix tecnico. Si tratta del Falstaff (Campanadas a medianoche / Chimes at Midnight, 1965) scritto, diretto e interpretato dal cinquantenne Orson Welles, nel pieno di quegli anni Sessanta all’inizio dei quali aveva avuto inizio il suo “esilio”, recitando sempre più di frequente in pellicole altrui per raccogliere denaro sufficiente a finanziare i suoi progetti: L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958) sarà infatti destinata a restare la sua ultima fatica per uno studio hollywoodiano.

È il settembre 1964 quando Welles inizia a girare il film (che lo porterà in buona parte della Spagna del Nord: Pedraza, Segovia, Calatañazor, Soria, Madrid, Ávila, Cardona e Barcellona), fino a poco prima di Natale. Nel febbraio 1965 la lavorazione ricomincia dopo una serie di contrattempi dovuta ai problemi finanziari cui egli è ormai abituato e a una sua malattia. Nel mese di aprile, finalmente terminate le riprese nelle varie locations, inizia il lavoro di montaggio che continua poi per il resto dell’anno e fino al principio di quello seguente a Parigi. È così che l’8 maggio 1966 l’opera ultimata – che il suo autore considera il proprio esito migliore – sbarca sulla Croisette.

Ventotto anni separano questo personalissimo adattamento shakespeariano di Welles per il grande schermo da quello teatrale da lui stesso elaborato fin dal 1938 sotto il titolo Five Kings, una sorta di compendio di diverse plays del Bardo da rappresentarsi in due distinte serate che attinge da “Riccardo II”, le due parti di “Enrico IV”, “Enrico V”, “Le allegre comari” di Windsor, le tre parti di “Enrico VI”, “Riccardo III” e per la parte narrativa da “The Chronicles of England” di Raphael Holinshed, passando anche per una messa in scena a Dublino nel 1960 col titolo “Chimes at Midnight”, che porta sul palco la prima sezione di Five Kings e costituisce una sorta di rodaggio per la pellicola successiva.

L’azione si svolge nell’Inghilterra del primissimo Quattrocento: Henry Bolingbroke, divenuto il primo re Lancaster con il nome di Enrico IV dopo la morte di Riccardo II, è assai angustiato dalla deprecabile condotta di suo figlio, il principe Hal, il quale, invece di pensare agli affari di Stato, passa il proprio tempo in sregolatezze e dubbie avventure in compagnia dell’«osceno barile di lardo» Sir John Falstaff. Quando però una ribellione ne minaccia la legittimità, Hal decide di riguadagnarsi la fiducia del padre mostrando il suo valore in occasione del decisivo scontro tra i due eserciti a Shrewsbury. Ma per salire al trono, egli dovrà anche sacrificare le amicizie di un tempo, a cominciare da quella di Falstaff…

Qual è il punto di vista di Welles come uomo, attore e regista su una materia così familiare, trattandosi di una frequentazione che – al di là del caso specifico in questione – va avanti praticamente da tutta la vita? Nel celebre libro-intervista firmato con Peter Bogdanovich ha modo di esprimere idee molto chiare in merito: «Hal non diventa re Enrico V così per caso. Fin dal principio tiene di mira, con uno sguardo lucidamente spregiudicato, la gloria e la dignità future. […] È un giovanotto complicato, con una curiosa, quasi spettrale freddezza interiore. E poi c’è anche il fascino, il cameratismo, la joie de vivre; fa tutto parte della sua vocazione, della dotazione indispensabile al perfetto principe di Machiavelli. In altre parole, è quella terribile creatura, un grande uomo di potere. […] Ecco il triangolo: il principe, il re suo padre, e Falstaff, che è una specie di padre putativo. Essenzialmente, il film è la storia di questo triangolo. Di contro a Falstaff il re rappresenta la responsabilità. Ma quel che più affascina in Shakespeare è che lo stesso re è un avventuriero: lui che ha usurpato il trono parla in favore della legittimità. E Hal deve tradire l’unico uomo buono della vicenda per proteggere una eredità dubbia, e realizzare così il destino che ha freddamente scelto: diventare un eroe della storia inglese. E, naturalmente, Falstaff è un rimprovero vivente per tutte quelle pretese d’eroismo e di regalità» (Io, Orson Welles, Baldini & Castoldi, Milano 1996, pp. 130-131).

Il cineasta di Kenosha (che morirà di attacco cardiaco all’età di settant’anni il 10 ottobre 1985 nella sua casa di Hollywood mentre sta proseguendo la ricerca di possibili finanziatori per un film tratto da “Re Lear” da girare in bianco e nero e principalmente in primo piano: «La dimensione epica di questa pièce è nella poesia del suo testo e nella mente degli spettatori») non ha mai trovato né più troverà nell’arco della propria carriera un personaggio nel quale calarsi con così convinta adesione e in cui rispecchiarsi con così estrema verità, anche personale: in definitiva, il ruolo di un’intera vita per l’uomo entrato in tutti i manuali di storia del cinema per essere stato autore e interprete dell’ormai canonico Quarto potere (Citizen Kane, 1941).