In attesa di conoscere i premiati dell’edizione del Festival di Cannes che si conclude questa sera, ricordiamo il quarantesimo anniversario di una Palma d’Oro notevole sia nella storia del concorso francese che del cinema, quella assegnata a Taxi Driver di Martin Scorsese nel 1976. Il film, diventato negli anni un cult movie soprattutto per l’ambientazione notturna newyorkese e per la paradigmatica figura interpretata da Robert De Niro, impose all’attenzione mondiale lo stesso attore allora trentaduenne e il regista Martin Scorsese (che ne aveva trentatre), come due dei più interessanti e promettenti adepti del rinnovato cinema americano.

Il film racconta di Travis Bickle (De Niro), ex marine reduce dal Vietnam che, insonne, lavora come taxista notturno a New York. Vive una solitudine alienata, abita solo, di giorno scrive un diario e guarda la tv, di notte guida il taxi in una New York oscura e tentacolare. Incontra e corteggia Betsy (C. Shepherd), impiegata dello staff elettorale di un senatore candidato alle presidenziali. Quando viene da lei rifiutato, compra delle armi e si prepara a uccidere il senatore. Ma il bersaglio è difficile e Travis cambia idea. Rivolge allora il suo zelo vendicatore, a suo modo puro, contro il protettore della prostituta minorenne Iris (J. Foster), che uccide liberando lei dalle “mansioni” della strada e rendendola ai genitori. Rimasto moribondo dopo la sparatoria, tenta il suicidio, che però non gli riesce. Rimessosi, incontra ancora Betsy, la quale si è ora ricreduta sul suo conto. Ma alla fine Travis rifiuta il rinnovato interesse di lei, rimanendo orgogliosamente alieno in una società ormai irrimediabilmente inospitale, spaventato anche – forse – dalla violenza che la guerra gli ha messo dentro e che nulla può più levargli.

Quando Taxi Driver veniva girato, tra il giugno e il settembre del 1975, era appena terminato il lungo e sofferto impegno degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam. Entrava allora con forza nel cinema americano il tema dei reduci dalla “sporca guerra” (perché persa) e del loro difficile reinserimento nella competitiva società statunitense, restandoci per oltre un decennio e dando corpo a numerose pellicole – poche di esse in vero notevoli – tra cui spiccano alcuni capolavori come Il Cacciatore (M. Cimino 1978, ancora con protagonista De Niro) e altri buoni film come Tornando a Casa (H. Ashby 1978).

Il tema della tragedia personale di un reduce del Vietnam che vira nel dramma collettivo di una Nazione che impiegherà anni, se non decenni, a rimarginare una cotale ferita sociale è uno degli assi portanti del film di Scorsese, il quale però costruisce su tale idea di fondo un percorso testuale autonomo, distinguibile dagli altri film di quella stessa risma, imperniato su una messa in scena dal forte taglio allegorico. Il personaggio di De Niro è ossessionato dalla sporcizia materiale e morale che vede girando in taxi nella New York notturna. Una volta scelto di impostare una narrazione in senso debole, secondo il moderno cinema dello sguardo, allora il regista ha il modo di dipingere, con l’aiuto della magnifica fotografia di Michael Chapman, una New York giocata sui motivi dell’acqua come simbolo allegorico del lavacro purificatore di cui la società americana avrebbe bisogno; delle luci artificiali notturne come specchio di una vita ormai (appunto) artificiale. Il tutto confluisce poi nel forte motivo del sangue, quello versato copioso della sparatoria finale che funge anch’esso da lavacro morale; quel sangue trasfigurato in una fotografia dalla colorazione desaturata, funzionale al valore metaforico dello stesso, sia quello dei carnefici (i papponi della minorenne) come quello del vendicatore solitario (Travis), vittima sacrificale prima della “sporca guerra” e poi della società che lo ha escluso.

Allegorico, ma in modo più velato e intimista, anche l’incontro di Travis con le due donne del film, diversissime tra loro ma egualmente irraggiungibili. Simboli (anche) di quel poco che resta a un reduce solitario e disadattato come lui: la prostituta Iris (J. Foster, allora tredicenne e reduce da diversi film per famiglie prodotti dalla Disney, cosa che all’epoca destò scalpore), e Betsy la borghese impegnata politicamente, graziosa, benpensante, che evoca in Traves famiglia e normalizzazione sociale, ma proprio per questo personificazione di una chimera irraggiungibile.

L’impianto narrativo del film origina invece da due fonti precise. Come dichiarato in più occasioni dallo sceneggiatore Paul Schrader, il soggetto di Taxi Driver trae ispirazione – indirettamente – dal romanzo “Lo straniero” dello scrittore esistenzialista francese, Premio Nobel, Albert Camus (1913-1960); nonché, in maniera evidentemente più diretta, dai diari dell’aspirante omicida Arthur Bremer, che nel 1972 tentò di uccidere il candidato Democratico alle presidenziali George Wallace, esperienza poi raccontata nel libretto “An Assassin’s Diary” pubblicato nel 1973.

Alcuni critici vi hanno letto anche una parafrasi urbana di Sentieri Selvaggi di John Ford (1956), forse perché l’ossessione di Travis nel salvare Iris dalle mani del suo protettore (che pare un indiano d’America) somiglia a quella di Ethan (John Wayne) nel ritrovare la nipote rapita dagli indiani nel citato capolavoro di John Ford, visione a mio modesto avviso un po’ forzata.

Comunque sia, quella di Taxi Driver che rammentiamo oggi fu allora una Palma d’Oro meritata per un must della storia del cinema, uno di quei film che non si può non aver visto almeno una volta, anche solo per farne un paragone – per sottrazione – con i videogiochi odierni; nonché importante per onorare due personaggi (il regista e il suo attore preferito) entrati poi nel gotha del segmento contemporaneo della Settima Arte.