4 luglio 2016, Independence Day: non poteva esserci giornata più adatta per salutare una leggenda del cinema non solo americano. Da sabato scorso c’è qualcuno che si trova a ben diritto ai “cancelli del cielo”, un italoamericano che – come e più del suo coetaneo, collega e amico Coppola (cui è mancata la sua lucida continuità, anche solo come tensione ideale) – è riuscito a restituire in immagini il senso di dignità, di amicizia, di appartenenza, di comunità che nella lunga e nobile tradizione della cinematografia made in the Usa era appannaggio del loro Omero, John Ford. Ecco perché, più che a Coppola, sarebbe spettato al compianto Michael Cimino il Ford dopo il nome proprio. 

Come riporta il “Dizionario dei registi del cinema mondiale”, «il cinema di Cimino [è] un cinema che cerca disperatamente di uscir fuori dal formato, dallo schermo, di diventare non soltanto mito o sogno tramutato in immagini, ma storia: quella storia americana di cui si sono persi i grandi ideali e le rappresentazioni migliori, almeno sullo schermo. I suoi film più importanti sono, con qualche forzatura dovuta ai tempi prescelti, una sorta di aggiornamento dell’opera di John Ford, il grande narratore della mitologia americana» (Einaudi, Torino 2005, vol. I, p. 357). 

Michael Cimino – l’uomo inquieto e la voce fragile (a maggior ragione dopo l’intervento alle corde vocali, ultimo di una serie di interventi più che conservativi sulla sua persona) – si è spento l’altro ieri nella sua abitazione di Los Angeles. Eppure Michael Cimino – il meticolosissimo cineasta entrato nella storia del cinema praticamente con due sole pellicole – era già scomparso nel 1996, quando Verso il sole (The Sunchaser), il suo settimo e ultimo lungometraggio, era stato portato in concorso a Cannes senza però ricevere alcun premio. A parte gli ultimissimi e sentiti riconoscimenti alla carriera e i frequenti e cordiali inviti a raccontare di sé e del proprio lavoro a festival, accademie e circoli, il resto della sua parabola artistica degli ultimi vent’anni aveva assunto l’amarissimo sapore dell’ingiustizia. 

Ma a quando risale l’origine di questo fatale duello? Direttamente al suo accesso nella sala del trono (con tanto di doppia incoronazione). «Il mio collega e paisano, Michael Cimino, per Il cacciatore»: così Coppola – che un mese più tardi (10 maggio) avrebbe portato in concorso a Cannes il suo Apocalypse Now, anche se come un “work in progress” – presenta, ormai quasi in conclusione della cerimonia degli Oscar, la sera del 9 aprile 1979, il vincitore della statuetta per il miglior regista del 1978. Ma il bello deve ancora arrivare: la standing ovation per l’ingresso di John Wayne (alla sua ultima apparizione, due mesi prima della morte, l’11 giugno), che di lì a pochissimi minuti lo richiama sul palco del Dorothy Chandler Pavillion per consegnargli un’altra statuetta in qualità di produttore – insieme a Barry Spikings, Michael Deely e John Peverall – de Il cacciatore (The Deer Hunter), premiato quale miglior film. 

A proposito della ancora oggi insostenibile sequenza della roulette russa, Cimino recentemente ricordava: «Steven Spielberg diceva sempre: “Michael, come hai fatto a mettere così tanta tensione in questa scena?” Gli dicevo: “Steven, la tensione non viene da questa scena, viene dal matrimonio, il matrimonio di un’ora prima della scena”. Non potete far piangere la gente in un film senza averla fatta prima ridere. Dovete farle amare i personaggi, farla ridere e vivere con loro. Solo allora potrete fare qualsiasi cosa. […] Ecco perché c’è così tanta tensione, per via dell’ora che c’è prima. Essa non viene dalla scena in se stessa. […] Non faccio film da un punto di vista politico. Non faccio film sulle idee, faccio film sulle persone. Il fatto che alle persone sia accaduto di vivere in un periodo di sconvolgimenti o grandi eventi, questo è un caso del destino. Sono sicuro che se stessi facendo questo film oggi, sarebbe sulla Siria, le stesse terribili tragedie che vanno avanti oggi in Siria, mentre parliamo». 

Esattamente una settimana dopo la premiazione, il 16 aprile, iniziano le riprese de I cancelli del cielo (Heaven’s Gate), che verranno ultimate solo nel marzo 1980, quando il budget del film è ormai passato dai 7,5 milioni di dollari iniziali ai 44 finali, con un incasso, nel mercato domestico, di soli 1,5 milioni: ecco servito il disastro che pone fine alla cosiddetta “New Hollywood”, il glorioso periodo durante la quale la “politica degli autori” aveva prevalso sulla vecchia “politica degli studios”. Anche se il suo maggior fiasco al box office è rappresentato dal già citato Verso il sole, che – sempre nei soli Stati Uniti – incassa meno di 30.000 dollari (!) a fronte di un budget di 31 milioni. 

Tornando a quello scorcio tra gli anni Settanta e Ottanta, su “The New York Times” del 19 novembre 1980 Vincent Canby (dal 1969 il critico cinematografico di punta del quotidiano) firma una celebre recensione, che si chiude con una riga entrata nella storia del cinema (insieme all’oggetto della sua stroncatura): «Heaven’s Gate is something quite rare in movies these days – an unqualified disaster»; «I cancelli del cielo è qualcosa di rarissimo nel cinema di oggigiorno – un disastro senza riserve». Ecco come il diretto interessato si era di recente “difeso”, in occasione della riedizione del film nella versione estesa (216 minuti) da lui stesso curata: «Ford aveva una formula rimasta celebre, che io ho ripreso: “I tre migliori soggetti per una macchina da presa sono un cavallo al galoppo, una coppia che danza e una bella montagna”. In I cancelli del cielo li avete tutte e tre». 

Quale potrebbe essere considerata la sua eredità come uomo e cineasta? Eccone una che dice moltissimo di entrambi: «Spesso mi chiedono chi sono i miei registi preferiti. Io dico sempre: Visconti, Ford e Kurosawa, la Santa Trinità del cinema. Hanno avuto una profonda influenza sulla mia vita. Non sono mai andato a una scuola di cinema, per cui non sapevo davvero niente, ho imparato come fare tutto da solo. Visconti e Ford mi hanno aiutato a imparare, io ho imparato da loro. Visconti diceva sempre: “Ho aperto la porta per gli altri”. Lui ha aperto la porta per me». E Michael Cimino, nel suo totale, generoso darsi “in cinema”, l’ha aperta per molti altri.