«Beh, è un lavoro come altri. Un buon lavoro, molto vario. Lunedì bruciamo Miller, martedì Tolstoj, mercoledì Walt Whitman, venerdì Faulkner; e sabato e domenica Schopenhauer e Sartre. “Li riduciamo in cenere e la cenere in cenere”. È il nostro motto».

Da una parte un romanzo statunitense di fantascienza distopica del 1953 dal titolo Fahrenheit 451 (che sta a indicare la temperatura alla quale la carta dei libri prende fuoco e comincia a bruciare, secondo la scala in uso nei paesi anglosassoni) firmato Ray Bradbury e dall’altra uno dei registi e sceneggiatori emergenti della Nouvelle Vague di nome François Truffaut (che, se c’è qualcosa che detesta fin dai tempi in cui faceva il critico cinematografico, sono proprio i film di fantascienza!).

Nonostante il successo, quest’ultimo è in piena «malinconia del terzo film», avendo già diretto i lungometraggi I quattrocento colpi (1959), Tirate sul pianista (1960) e Jules e Jim (1962): «Mi è sembrato di capire che in linea generale ogni cineasta debba fare tre film nella sua vita, i primi tre che vengono dal più profondo di se stesso. Dopodiché comincia una carriera, il che è molto diverso», come confessa in un’intervista del maggio 1963.

Sta di fatto che è in una serata domenicale agostana del 1960 che egli, totalmente rapito, sente parlare per la prima volta del volume da un produttore francese, il quale non ne ricorda il titolo, ma il contenuto: una società futuribile dove i vigili del fuoco non spengono incendi, ma cercano e bruciano libri (severamente proibiti) e i proprietari e lettori di testi sono braccati dalle forze dell’ordine. E in mezzo a tutto questo, la storia della sfida – lanciata in primis a se stesso – di un solerte pompiere, Montag, che decide di rompere questo tabù…

Come può restare indifferente a un racconto del genere un accanito cinefilo e un vorace bibliofilo come il ventottenne Truffaut? Purtroppo per lui, quello che ancora non può sapere è che gli ci vorranno ben sei anni di preparazione e quattro mesi di riprese fuori dalla sua amata e familiare Francia (presso i Pinewood Studios di Londra e dintorni, tra il gennaio e l’aprile 1966) per mettere finalmente su pellicola il film, poi invitato da Luigi Chiarini (direttore della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dal 1963 al 1968) a partecipare in concorso – esattamente nel settembre di cinquant’anni fa – alla 27ª edizione del Festival.

Nonostante quanto riporta Giovanni Grazzini sulle colonne del “Corriere della Sera” dell’8 settembre 1966 («Quando […] Montag, nella foresta, si affianca ai nuovi compagni di fede, l’emozione ha un grado di intensità che non coinvolge soltanto gli spettatori intellettuali, gli editori e i librai; più d’un ciglio, stasera, era umido. Per la prima volta, quest’anno, a Venezia. Narrato con stile piano, oggettivo, dove realtà e fantasia si amalgamano con armoniosa scioltezza, Fahrenheit 451 ha un raro equilibrio fra dramma e commedia, e nell’ultima parte, quando bussa al cuore, si avvicina alla poesia»), l’accoglienza che in generale gli riserva la critica (anche francese) è piuttosto fredda.

Di contro – in parte anche per i motivi che fanno capolino nella recensione di Grazzini – è invece il pubblico che dal momento della sua uscita nelle sale gli assicura una strana popolarità che sembra ancora oggi, alquanto curiosamente, resistere al tempo, facendone uno dei film più ricordati e citati della storia del cinema. Forse perché, come ha modo di affermare lo stesso regista, quasi come a voler scansare sia la polemica banalmente politica che il dibattito puramente formale, potrebbe certo dirsi «un film sulla cultura e la libertà, una critica sociale o forse una diatriba contro i Paesi in cui si bruciano i libri. Ma io me ne frego, questo non m’interessa affatto. Forse nel libro ci sono, ma io personalmente non m’interesso a queste grandi idee, a questo aspetto solenne. Godard sì, lui è il tipo che si interessa ai grandi problemi del nostro tempo; io posso fare film solo a partire da una mia idea personale».

Beh, sarà solo una curiosità, ma il primo libro sequestrato dai futuribili vigili del fuoco per essere consegnato alle fiamme durante la perquisizione che apre la pellicola è una copia del “Don Chisciotte” di Cervantes scovata – ma guarda un po’ – in un lampadario… “Vivement Truffaut!”.