Ci sono circostanze e fatti che lasciano senza parole. Non reggono spiegazioni e scuse, ricostruzioni e ragionamenti, condanne e invettive. È troppo grande lo spazio occupato dall’incomprensibilità e, dunque, tutto risulta insufficiente a chiarire e spiegare. Ciò che è accaduto a Senago nei giorni scorsi rientra senz’altro in questo genere di fatti.
Alle telecamere de La Vita in Diretta, il programma di Rai1 condotto da Alberto Matano, parla tra le lacrime Sabrina Paulis, la mamma di Alessandro Impagnatiello, l’uomo accusato di aver ucciso Giulia Tramontano, incinta di sette mesi di suo figlio: “È un mostro e lo ripeterò sempre, lui è un mostro… È sempre stato una persona educata, lui poi nascondeva ma noi non lo sapevamo, se lui aveva una doppia personalità noi non lo sapevamo… Ale non era così credetemi. Non lo so cos’è successo. Io non ci credo ancora, non ci credo”. Sabrina chiede perdono per averlo messo al mondo, e dice: “Come si fa a perdonare?”.
Il punto è proprio il fatto che noi non possiamo impadronirci di ciò che succede, nel bene e nel male, nel cuore dell’altro, fosse anche nostro figlio. Così, quando la realtà ci mette davanti all’evidenza che l’altro è un mistero, cediamo spesso alla tentazione di liquidarlo con una definizione che lo esalti o lo distrugga definitivamente.
In queste ore mi è venuta alla mente una vicenda curiosa accaduta molti anni fa. Nella Milano delle sette eretiche, non sapendo più come porvi rimedio, nel 1233 viene inviato il domenicano Pietro da Verona (poi divenuto santo). Non sopportando più la sua opera a servizio della verità della fede, alcuni eretici decisero di ucciderlo. Diedero l’incarico a un certo Carino (originario del villaggio di Balsamo) che, aiutato da un complice, colpì con una falce Pietro da Verona mentre andava da Como a Milano, nelle vicinanze di Barlassina. Era il 6 aprile 1251. Pietro morì pochi giorni dopo. Carino fu incarcerato, scappò dal carcere, nei pressi di Forlì si dovette fermare a causa di una grave malattia. Decise di confessare tutto, si pentì e, convertito, diventò domenicano come la sua vittima. Dopo la morte fu proclamato “beato”. La vicenda di questo “santo assassino” è emblematica.
Ciò che è accaduto a Senago è di una drammaticità realmente incomprensibile. C’è però, nella vita di ciascuno di noi, una cosa ancora più incomprensibile: la Misericordia. Tutto fa ripartire, tutto può salvare, tutto di noi può abbracciare. Dunque, prima di cedere al tranello delle definitive definizioni, presi come siamo dall’illusione di poter tenere in pugno la realtà, possiamo invece rischiare lasciando l’ultima parola al Padre, come Gesù in punto di morte: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).
Le vere vittime sono i carnefici. Vittime di loro stessi e dei loro progetti, della loro incoscienza. Quante volte, durante la confessione, ho sentito i penitenti dire addolorati e stupiti: “Non pensavo di essere così, di poter arrivare a tanto”. È per questo che Gesù in croce apre lo spazio per un estremo tentativo, un’ultima attenuante: non sanno quel che fanno, non hanno coscienza reale di ciò che, pur avendo preparato nei minimi dettagli, hanno compiuto con le loro mani. La parte più vera di noi può essere oscurata e, al tempo stesso, rifarsi viva all’improvviso. Basta questo e tutto può ricominciare, per tutti.
Che posizione vertiginosa! Solo la divina Misericordia la può sostenere, Misericordia che non si pente della vita di nessuno, perché nessuno coincide con i propri errori, per quanto gravi siano.
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