C’è un vincitore assoluto, anzi una vincitrice, delle elezioni di ieri: Giorgia Meloni. C’è un secondo classificato, Giuseppe Conte. Cosa accomuna questi due vincitori, apparentemente così distanti? L’opposizione a Mario Draghi. Sia chiaro: il premier uscente ha ancora un consenso altissimo. Ma l’ex presidente della Bce porta male ai compagni di viaggio. E il voto di ieri si è quasi tramutato per gli elettori in un “bilancio” del governo Draghi.
La tanto citata “agenda Draghi” si è rivelata, di fatto, pericolosa come i fili dell’alta tensione: chi l’ha toccata ha fatto una brutta fine. Gli elettori, quasi inaspettatamente, hanno premiato gli anti-draghiani: quelli della prima ora, come Fratelli d’Italia, rimasti fuori dall’esecutivo di “unità nazionale” voluto da Mattarella, come quelli dell’ultima ora, il redivivo Movimento 5 Stelle a guida Conte che nel luglio scorso ha costretto alle dimissioni il presidente del Consiglio.
A Conte è riuscita un’operazione su cui pochi scommettevano alla vigilia: restare sul carro di Draghi il più possibile e saltarne giù al momento migliore per far credere che i grillini, in realtà, non fossero mai stati veramente dalla parte dell’ex presidente della Bce.
Ma l’agenda Draghi ha portato male anche ai suoi più devoti sostenitori. Fortemente penalizzato il terzo polo calendian-renziano, che ha sempre indicato Draghi (senza il suo consenso) come premier di un nuovo Governo. Ma il terzo polo, che ha visto solo con il cannocchiale lo sbandierato traguardo del 10%, si è classificato sesto guadagnando una decina scarsa di deputati. Da ieri, dunque, il vero terzo polo si chiama M5s.
Dal canto suo, anche il Pd, partito draghiano per eccellenza, è andato male, come è andata male la Lega, dimezzata nei voti, che ha scontato il lungo appoggio a Draghi con le due anime inizialmente unite, quella dei governatori (che vollero il sostegno a Draghi del “Nord produttivo”) e quella salviniana. Entrare nel governo aveva una sua logica: impedire il varo – praticamente certo: Mattarella non avrebbe mai sciolto le Camere – di un governo giallorosso bis in tempo di pandemia e crisi economica. In parte ha funzionato: vedi alla voce Ddl Zan e riforma del catasto, come gli aiuti alle imprese e qualche riapertura durante il Covid, per dirne alcune. Fatto sta che alla fine il boomerang Draghi è ritornato addosso anche a Salvini. Che al termine di questa esperienza si è preso pure le insinuazioni dello stesso Draghi, il quale nell’ultima uscita pubblica lo ha (indirettamente) insultato dandogli del “pagliaccio prezzolato”.
Che gran parte della tradizionale base leghista sia transitata sotto la fiamma di Giorgia Meloni è confermato dai dati del Nordest: in Veneto (governatore Luca Zaia) FdI ha il doppio dei voti della Lega, in Friuli-Venezia Giulia (governatore Massimiliano Fedriga) addirittura il triplo. Dall’obbligo vaccinale al green pass fino al sostegno a Draghi, i governatori del Nord hanno perso l’enorme consenso capitalizzato. Che invece ha trovato sponda nell’opposizione della Meloni a Draghi. Alle europee del maggio 2019, la Lega di Salvini aveva il 34,3%, primo partito italiano, e Fratelli d’Italia il 6,5%. Dopo tre anni e mezzo di Covid e di Draghi, i rapporti di forza si sono ribaltati. Dunque la pesante sconfitta della Lega, dietro l’ovvia responsabilità del segretario, colpisce chi quel patto con Draghi l’aveva caldeggiato e voluto: Giorgetti, i governatori, e una Lega – quella bossiana dell’ampolla – storicamente pronta a fare da stampella alla sinistra.
Come è andata all’altro azionista del centrodestra è facile intuirlo: Forza Italia, anch’essa partecipe del Governo Draghi, è uscita dimezzata dalle urne. Senza dimenticare che, grazie alla fine del Governo Draghi, aveva pure subito una scissione interna. Nonostante ciò, Berlusconi, al netto di qualche gaffe su Putin e Reddito di cittadinanza, è riuscito a stare con la testa davanti a Calenda e Renzi. Un risultato che può quasi apparire come positivo (grazie ai voti in Sicilia di Schifani…) se si pensa che prima delle elezioni Forza Italia era data per morta. Al Cavaliere però non riesce lo sgambetto all’amico Salvini. Da regista del centrodestra (come auspicava) dovrà accontentarsi di fare il padre nobile.
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