Nel film La memoria dell’assassino, John Knox è un killer gentile. Esperto di esecuzioni su commissione, ha alle spalle una lunga carriera senza macchia e senza paura. Affidabile, affabile, professionale, umano, perfino colto, con due insolite lauree umanistiche sul curriculum da delinquente. Insomma, uno su cui contare. Al suo fianco l’amico assassino, Thomas Muncie (Ray McKinnon, credibile e smagrito caratterista). Uno vuole conoscere le colpe delle sue vittime, l’altro preferisce farlo e basta. Due stili, due caratteri, un’amicizia tranquilla, costruita tra spari, sgozzamenti e lunghe attese in auto.
Tutto scorre in modo ordinariamente delinquenziale, fino a quando, in un giorno come un altro, Knox chiede un misterioso permesso di “lavoro” per questioni personali. Sarà a New York, per una visita dove scoprirà di avere l’implacabile malattia di Creutzfeldt-Jakob, infinitamente più aggressiva dell’Alzheimer. Un aspettativa di vita appena abbastanza per riordinare conti, case e affetti. Tutto improvvisamente cambia.
Anche i killer invecchiano. Sono uomini pure loro. Allora perché non raccontare gli acciacchi dell’età, le malattie invalidanti, le sventure della vecchiaia che ti cambiano inevitabilmente la vita, dentro allo sporco mondo di un killer su commissione? Pensate alla difficoltà di un assassino nel compiere un lavoro “pulito”, quando hai ormai perso la memoria. A distinguere gli amici dai nemici, le vittime dai colleghi, e tutto quello che ruota loro attorno.
È proprio questa la storia di John Knox, interpretato da un convincente e disorientato Michael Keaton che firma anche la regia.
Una diagnosi infausta e un futuro che, d’improvviso, si conta in settimane. Un tempo troppo breve per riconciliarsi con il passato, segnato dall’allontanamento del figlio che ha smesso ben presto di riconoscerlo come padre.
Un uomo rispettoso, nonostante tutto, il nostro John, con la sua rete di affetti raccogliticci, pescati tra i colleghi di lavoro (tra cui compare un brillante Al Pacino, in versione di amorevole capomafia) e prostitute d’abitudine. Un bottino sentimentale un po’ povero e scoraggiante, devastato ulteriormente dalla paura di perdere tutto. Inesorabilmente. Una mattina come un’altra.
Una prospettiva drammatica, purtroppo reale nel mondo reale, raccontata con equilibrio ed empatia, scolpita nel viso solcato di incredulità del buon Keaton, oggi settantaduenne.
Il fine vita diventa, come da ovvio copione, l’occasione per sistemare i cocci di una vita fuori dal comune, che condivide con l’uomo comune il bisogno di calore, rispetto e cura.
Keaton realizza un film crepuscolare, dai toni neri e dagli umori bui, segnato da tristezza e rassegnazione. Un thriller senza thriller. Un dramma sincero ma bidimensionale. Un miscuglio di generi e suggestioni che non trova profondità in nessuno dei viaggi in cui ci porta. Un film sulla memoria che non lascia ricordi indelebili ma soltanto un po’ di strisciante malinconia. È già tempo d’estate.
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