Pietro Anastasi ad un capo dall’anno (era il 17 gennaio), Paolo Rossi all’altro (10 dicembre). In mezzo Maradona (25 novembre). Davvero strano, questo 2020 che se ne va senza lasciare rimpianti dietro sè. Troppi dolori, troppi lutti, troppe domande senza risposte. Eppure, al netto della catena di morti che ha ribaltato il quieto vivere di tante famiglie, c’è posto per una considerazione in più che nulla ha a che fare col banale sentimentalismo emotivo che ha riempito le vie di Napoli alla morte del Pibe de Oro.

Nei giorni scorsi l’ha riassunta benissimo l’ex-ct Giovanni Trapattoni: “I calciatori non dovrebbero andarsene prima degli allenatori”. Calciatori come figli, allenatori come padri e madri. Non è un caso che a pronunciare la frase sia stato un “signore del calcio” classe 1939. Nel calcio che non c’è più (ma vale per tanti altri sport), sepolto sotto quaranta o cinquant’anni di onnivoro business economico-televisivo che detta le regole e le cambia a proprio uso e consumo senza incontrare resistenza, c’era ancora spazio per l’umanità dei rapporti anche all’interno dell’inevitabile scala gerarchica.

Chiamato con grande fiuto calcistico alla Juventus nonostante la bufera del calcio scommesse nella quale era caduto suo malgrado (anni più tardi verrà assolto da tutte le accuse), Paolo Rossi – reduce da due anni di squalifica che ne aveva messo in forse il futuro calcistico – appena arrivato a Torino si sentì dire da Giampiero Boniperti, braccio destro del commendator Agnelli: “Domani ti alleni con la squadra. Prima, però, fatti tagliare i capelli”. Non un vezzo o un’ingerenza nella vita privata del calciatore, ma l’indicazione di un modo di essere, il rispetto di un’immagine: se vuoi far parte della Signora del calcio, le regole sono queste. Viene in mente che un decennio prima era occorso proprio all’Avvocato dare questo suggerimento a Pietro Paolo Virdis, appena acquistato dal Cagliari che, fresco di ingaggio, aveva osato presentarsi nel suo ufficio vestito alla meglio: “Lei gioca nella Juventus: la prossima volta che la convoco, si presenti in giacca e cravatta”. Questione di stile quando, in una società che ha vinto tutto quello che c’è da vincere, lo stile è (o forse era) anche sostanza. C’è da dubitare che qualche dirigente o allenatore di oggi abbia il coraggio di invitare un suo giocatore a fare altrettanto ripulendosi dagli orribili tatuaggi di cui a volte si ricoprono il corpo. Questione, appunto, di stile.

Anche per questo la morte di chi ci ha fatto sognare, fosse pure calciando un pallone sopra un rettangolo verde, rappresenta per tanti di noi un piccolo dramma. Le fila di ammiratori alla camera ardente per Pietruzzo Anastasi allestita nel Palazzo Estense di Varese o a quella per Pablito Rossi allo stadio Menti di Vicenza stanno lì a dimostrarlo: la gente comune, tifosi incalliti o semplici padri di famiglia, vede nella morte dei suoi “eroi di un tempo” la perdita di una parte di sè, l’oblìo di una pagina importante della propria storia, la fine dei sogni legati alla gioventù. Sapevano, certo, che quei sogni erano svaniti con l’arrivo dei capelli bianchi e l’uscita di scena di quegli “eroi”, ma nessuno glielo aveva mai detto con tanta franchezza come ha fatto la morte. Morti gli “eroi”, moriamo insomma un po’ anche noi ed ecco spiegata la tristezza che ci invade – noi gente comune che con il calcio professionistico non ha nulla a che fare – nel rivedere i loro dribbling e i loro goal. Con Anastasi, la Nazionale Azzurra ha vinto l’unico campionato europeo del suo invidiabile palmarès, con Rossi il suo terzo campionato del mondo. Personaggi in campo e fuori, professionisti seri, vite specchiate per pagine di storia umana e sportiva che hanno finito col coincidere con la storia personale di un’intera generazione. Ha ragione il Trap: i calciatori non dovrebbero andarsene prima degli allenatori ma, in fondo, nemmeno prima dei tifosi. Dovrebbero essere immortali, come certi divi del cinema e forse lo sono: “anastasi”, in greco, significa risurrezione.