Lutto pesantissimo nel rock: il chitarrista londinese Peter Green è deceduto a 73 anni, nella notte, senza alcun clamore o previsione. Il suo nome, purtroppo, non dice molto ai più giovani, visto che la sua attività musicale si è nei fatti conclusa parecchi anni fa, eppure la sua storia (artistica e personale) è una delle più importanti, emblematiche e misteriose dell’intera storia del rock.



Nato a Londra nel 1946, Peter Allen Greenbaum si trova a 21 anni a sostituire Eric Clapton (di un anno più vecchio, ma già abbastanza affermato) nei Bluesbreakers di John Mayall: l’esordio di Peter nella musica che conta avviene nel 1967 con un ottimo ellepì, Hard Road (a cui contribuisce anche con due pezzi) prima di fondare i Fleetwood Mac, formazione a due chitarre destinata a diventare una delle più importanti band di british blues.



Con i Fleetwood Mac Peter Green incide cinque dischi pazzeschi (comprendendo il live registrato a Chicago presso la Chess records, Blues Jam, con Willie Dixon, Otis Spann, Honey Boy Williams e Junior Wells), con canzoni perfette che hanno fatto scuola a tutti (da Black Magic Woman a Oh Well, da Albatros alla versione indimenticabile di Need Your Love So Bad, da Man of The World a Green Manalishi): nel periodo 1967-1970 Peter – uomo introverso, riflessivo, pieno di dubbi sul presente suo e del mondo – è la miglior forza creatrice nel cuore di una band che costruisce una strada inedita al british blues, non disdegnando soluzioni ricche di influenze latine, jazz, afro-cubane e addirittura progressive e classicheggianti. In tutto questo caleidoscopio di idee lo stile chitarristico di Peter Green è l’inarrivabile punta di diamante, differente in tutto e per tutto da quella di Clapton, Pete Townshend o di Jimmy Page: la sua è una sensibilità rarissima, per nulla attratta dal virtuosismo, capace proprio di toccare quelle corde “blue” che sono dello strumento come del cuore di chi ascolta.



Ma la sua geniale sensibilità (il solo di Need Your Love so Bad è inarrivabile per intensità, pulizia e feeling, come sempre sottolineato da un suo grande estimatore, Gary Moore, altro chitarrista impeccabile) è anche la sua… debolezza. Nel 1970, nel bel mezzo di un tour europeo, Peter Green finisce dalle parti di Monaco in un mai ben definito acid party a base di LSD presso la Highfisch-Kommune, una comune alternativa frequentata tra gli altri dagli Amon Duul e da centinaia di giovani tedeschi che provavano nel caos quotidiano la libertà della rivoluzione sessuale e degli allucinogeni. Già instabile, introverso e incerto, Peter Green viene asfaltato da alcuni giorni di LSD pesantissimo, va fuori fuori controllo e scompare: da quel giorno non è più tornato completamente in sé.

Distrutto umanamente e cerebralmente, Green lascia la band nel ’70 e per circa un decennio (tra alti e bassi, anche se con qualche buon disco in catalogo) naviga nel mondo e nelle cliniche psichiatriche. Dopo la sua fuoriuscita dalla band, i Fleetwood Mac entrano nella fase Stevie Nicks-Lindsay Buckingham (gli ultimi arrivati, che in realtà sono un duo folk, ma che diventano presto i leader della formazione) hanno venduto caterve di dischi con il pop-rock facile e prezioso di Rumours, Tusk e Tango in the Night.

I suoi ex compagni salgono nell’olimpo del pop, e intanto Green vive un’esistenza che per molti versi è paragonabile a quella di Syd Barret, cercando di rimettere insieme i cocci di una vita turbata. Si sposa, ha una figlia, rimette insieme una band, lo Splinter Group, con i fidati Nigel Watson alla chitarra e Cozy Powell alla batteria. La testimonianza migliore degli anni “post-Fleetwood” rimangono forse l’iper-sperimentale End of the Game (1971, in pieno caos mentale) ed il bootleg live Peter Green-Kolors, Live in Frankfurt (1984), un cocktail di blues, world e soul, in cui ancora il suo carisma chitarristico e la voce inconfondibile si facevano sentire in versioni zuppe di feeling di Love that Burns, Man of the World, Oh Well e I’m a Free Boy Now.

Negli ultimi anni Peter Green ha vissuto completamente defilato. Coloro che hanno avuto la fortuna di incontrarlo l’hanno descritto come una persona serena e pacifica, quasi completamente dimentica di tutto quello che la sua musica ha rappresentato nel rock. In molte occasione il fondatore dei Fleetwod Mac ha fatto donazioni colossali a persone e associazioni di beneficienza, perché non riteneva corretto essere “troppo ricco”: questo a dimostrazione della necessità di “liberarsi” del superfluo.

Nel frattempo la sua ex-band viveva tra successi e misteri. Nicks e Buckingham hanno continuato tra amori e litigi, con la bionda vocalist afferrata per più di una volta sull’orlo del precipizio fisico (soprattutto ai tempi della sua relazione tossica con un altro grande pazzo del rock, l’epico Joe Walsh, chitarrista degli Eagles dai tempi di Hotel California). Ma la storia dei Fleetwood Mac ha continuato ad essere circondata da una specie di maledizione tossica. Due anni fa è morto Danny Kirwan, la “seconda chitarra” – quella più aggressiva – della band. Il suo è un altro mistero inafferrabile: anche lui inghiottito dalla spirale dell’introspezione-acidi (dopo la comune di Monaco) era scomparso dalle scene, ritrovandosi negli anni ’80-’90 a fare l’homeless sotto i ponti di Londra, fino a un tardivo ricovero in case di cura. Il terzo chitarrista – che in realtà era nella band fino dagli inizi – è Jeremy Spencer, anche lui volatilizzato per via di un bad-trip di acidi durante una tournée californiana e poi riapparso negli anni successivi come membro di una setta spiritual-sessuale di hippie, i Bambini di Dio (personaggi che anche in Italia avevano avuto un certo seguito negli Anni ’70 con una sede milanese ed una a Roma). Per sua fortuna, Jeremy oggi sta bene.

In tutte queste maledizioni e reincarnazioni, i Fleetwood Mac hanno storicamente preso altre strade da quelle potentemente blues degli inizi, ed anche il marchio di Peter Green è andato dimenticato nella morsa degli ego rappresentata dall’amore-odio tra Nicks e Buckingham. Per fortuna nell’ultima edizione dei Fleetwood Mac, con l’ingresso di Mike Campbell (già lead guitar degli Heartbreakers di Tom Petty) l’eredità di Green è tornata a spirare forte, come dimostra l’esecuzione live di successi come Oh Well e Man of the World. A fine febbraio, inoltre Mick Fleetwood (storico batterista e fondatore della band) aveva organizzato un Peter Green Tribute a Londra: sul palco erano saliti Pete Townhend, David Gilmour, Billy Gibbons, John Mayall, Steven Tyler e Jonny Lang tra gli altri, tanto per dimostrare l’affetto intergenerazionale che circondava il leggendario e ormai nascostissimo Green. La notizia del decesso arriva inattesa e toglie dalla scena musicale non tanto un bluesman in attività (l’ultimo album, il buon Reaching the Cold 100, è comunque del 2004), quanto un’autentica leggenda. Il protagonista di una storia di blues bellissima, maledetta ed anche dimenticata.