Caro direttore,
la nuova esternazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a favore dell’abbandono dell’unanimità nelle decisioni Ue non può non suscitare qualche spunto interrogativo. Invocare in questi giorni la cancellazione accelerata di un diritto di veto tuttora in mano a ciascuno dei 27 leader Ue va a indebolire – almeno oggettivamente – la posizione del governo italiano a un tavolo di impegno estremo come quello della riscrittura delle regole Ue. Vi si coglie d’altronde un’assonanza con la Francia di Emmanuel Macron, con la quale nel novembre 2021 l’Italia ha siglato un inedito “Trattato del Quirinale”, peraltro con la firma del premier istituzionale Mario Draghi. Ora come allora sembra riproporsi la questione di un “semipresidenzialismo di fatto” ormai consolidato a Roma: una prassi istituzionale in cui il Quirinale assume, fra l’altro, posizioni di merito nel campo della politica estera, ruolo che invece la Costituzione di una Repubblica parlamentare riconosce solo all’esecutivo.
Questo avviene, d’altra parte, nelle settimane in cui sta entrando nel vivo il confronto – squisitamente politico – sul “premierato”: il progetto di riforma istituzionale che il centrodestra ha lanciato dopo l’ultima affermazione elettorale con il fine espresso di superare la governance sempre più ibrida consolidatasi dal 2011 in poi (anche con il premierato ibrido di Giuseppe Conte a trazione M5s-Pd e garantito dal Quirinale durante la pandemia). La costruzione del premierato è un processo politico-istituzionale in cui non sembrano sussistere spazi costituzionali per arbitraggi o gradimenti esterni. Fra l’altro: già nel 2016 gli italiani hanno bocciato via referendum popolare il progetto di riforma Renzi-Boschi, che risentiva in modo visibile dei “desiderata” della Presidenza della Repubblica. E nel 2022 Mattarella è stato rieletto anche sull’onda della contrarietà a portare al Quirinale Mario Draghi, con la prospettiva di formalizzare un semipresidenzialismo “alla francese”. Il premierato sembra andare nella stessa direzione politica.
Sempre in questi giorni, tenere alta la tensione attorno alla governance Ue vuol dire avallare nei fatti l’escalation ostracistica dell’Unione franco-tedesca contro l’Ungheria di Viktor Orbán. Il quale sta bloccando la Ue nella decisione di prolungare gli aiuti all’Ucraina nella guerra contro la Russia, limitandosi per ora ad astenersi sull’apertura di colloqui formali con Kiev per l’ingresso nell’Unione. Bruxelles ha tenuto nel frattempo congelati 10 miliardi di fondi Ue destinati a Budapest nell’ambito del Recovery Plan post-Covid. Da anni la Commissione Ue contesta all’Ungheria orbaniana di non essere più una democrazia a canoni Ue. Su questo versante gli spunti di riflessione appaiono comunque molteplici.
A sei mesi dal rinnovo del Parlamento Ue e di tutti gli alti incarichi a Bruxelles è nota la vicinanza fra Orbán e il premier italiano in carica: in un contesto – molto più politico che istituzionale – in grande evoluzione. Fidesz – il partito conservatore del premier ungherese – è stato parte del Ppe fin da quando Budapest è entrata nella Ue: ancora nel 2019 Orbán e i suoi voti a Strasburgo sono stati decisivi nell’insediare Ursula von der Leyen alla Commissione. Nel 2021, tuttavia, il Ppe ha accompagnato alla porta Fidesz, favorendone fra l’altro un avvicinamento a Ecr, il contenitore politico di destra riformista di cui FdI è oggi architrave e Meloni leader virtuale. Ecr è oggi all’opposizione a Strasburgo: ma gli sforzi di agganciarlo nel Ppe (e portare Meloni dentro una nuova “grande coalizione”) costituiscono finora la dinamica principale della fase preelettorale, fra cancellerie ed euro-partiti.
Il Pse è invece nettamente sulla difensiva, come lo stesso Pd in Italia. Per sei mesi ancora occuperà la poltrona italiana in Commissione con Paolo Gentiloni: secondo alcuni, tuttavia, già al lavoro sul suo rientro in Italia come nuovo leader “dem”, infatti visibilmente disinteressato al tavolo sul nuovo Patto. Insomma, da qualsiasi lato lo si guardi, il favore “istituzionale” ed “europeista” alla rimozione del veto nel Consiglio Ue, sembra in ogni caso incorporare un giudizio politico a gamba tesa e a partita in corso, in Europa e in Italia.
La crociata contro Orbán sembra meritare qualche altro approfondimento. Il premier ungherese era già in carica – per la prima volta – quando l’Ungheria ottenne l’apertura dei colloqui per l’adesione alla Ue, nel 1998. Erano trascorsi già nove anni dalla caduta del Muro, che aveva segnato la fine della Guerra fredda. E Budapest aveva atteso cinque anni prima di avanzare la prima richiesta di ingresso nell’Unione. Questa fu concessa infine nel 2002 e le frontiere furono abbattute nel 2004. L’Ungheria dovette attendere dunque quindici anni in tutto per uscire definitivamente dal quarantennio sovietico, pur essendo un Paese di millenaria appartenenza all’Europa. Qualcuno può ragionevolmente contestare a Orbán i dubbi sull’apertura immediata di colloqui con l’Ucraina di Volodymyr Zelensky, un Paese in guerra, privo di tradizioni democratiche e di dubbia “europeità”?
Non da ultimo. Quando Orbán aprì e condusse la fase negoziale con la Ue, in Italia la maggioranza parlamentare era di centrosinistra. Mattarella, capogruppo alla Camera della Margherita dopo la vittoria dell’Ulivo nel 1996, fu poi vicepremier di Massimo D’Alema e quindi ministro della Difesa nel governo Amato (negli anni, fra l’altro, dell’intervento Nato nei Balcani). Fu quell’Italia che – assieme agli altri partner Ue – esaminò e alla fine promosse l’Ungheria di Orbán. E l’ingresso effettivo di Budapest maturò quando presidente della Commissione Ue era Prodi.
Può darsi che a distanza di due decenni, l’Ungheria di Orbán abbia effettivamente perso i requisiti per restare nell’Unione e che gli stessi Paesi e le stesse forze politiche che allora lo accolsero nella Ue si vedano obbligati a isolare e neutralizzare un “Paese impazzito”. Ma la soluzione del problema (verosimilmente non unico nell’Europa odierna) non può certo essere l’azzeramento tecnico del potere di veto ungherese nel Consiglio Ue. All’ultimo Consiglio Ue – che ha trattato Orbán quasi da paria – a capotavola c’era il presidente di turno della Ue, il premier socialista spagnolo Pedro Sánchez, che ha perso le ultime elezioni ma ottenuto la fiducia grazie a un pugno di separatisti catalani. Questo però solo in cambio dell’impegno ad amnistiare i leader protagonisti del “golpe” di Barcellona nel 2017: tuttora ricercati all’estero dalla magistratura iberica.
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