I dischi non si vendono più da anni ormai. Visto il totale disinteresse delle ultime generazioni per questi “oggetti”, sostituiti dalle cosiddette “piattaforme digitali”, ovvero la musica ascoltabile tramite varie applicazioni come Spotify, la conseguenza è anche che l’unico modo che hanno gli artisti per guadagnare sia dato dalla musica dal vivo. Ecco perché l’aumento sempre più esorbitante del prezzo dei biglietti dei concerti a cui la gente peraltro si sottopone senza lamentarsi dato che concerti grandi e piccoli continuano a fare grossi numeri. Anzi, i dischi di artisti esordienti non si stampano manco più, tanto i ragazzi di oggi non li comprerebbero, visto che ascoltano solo musica “liquida”. Una generazione di giovani cantanti che non avrà neanche la soddisfazione di un ricordo fisico e tangibile dei loro sforzi.
In un articolo di grandissimo impatto, pubblicato sul sito Cuepoint, il giornalista e dj radio di Nashville Craig Havighurst ha fatto per la prima volta in modo esauriente il (triste) quadro in cui si dibatte oggi la musica, una delle tante vittime di Internet che ha provocato la bastardizazzione e l’impoverimento dei gusti e dei sentimenti della gente.
Inizialmente, spiega, l’era digitale aveva comportato per i compositori di musica il problema della pirateria, cioè la duplicazione dei cd e dei supporti musicali in genere in modo fuori legge, definito dalle case discografiche come il motivo principale di perdita del mercato e di danno alla musica stessa. I fatti hanno dimostrato che non era quello il vero problema. Oggi si è capito, e i musicisti lo pagano sulla propria pelle, che il vero danno sono le minuscole percentuali che colossi dello streaming come Spotify e Apple Music pagano agli artisti per ogni brano ascoltato in streaming. Ma non si ferma qui.
“Meno ovvi” scrive “sono un certo numero di altre forze e tendenze che hanno svalutato la musica in un modo più pernicioso dei problemi dell’iper-rifornimento e della manovrabilità inter-industriale. E con la musica non intendo i formati di canzoni popolari che si vendono nei talent e nelle radio commerciali. Intendo la musica, la forma d’arte sonora – composizione immaginativa, concettuale e improvvisazione – radicata in idee armoniche e ritmiche. In altre parole, la musica come era stata definita e considerata quattro o cinque decenni fa, quando la musica d’autore (in modo incompleto ma generalmente chiamata “classica” e “jazz”) aveva un posto a tavola”. I giovani musicisti di oggi, aggiunge,si trovano a lottare senza saperlo contro forze che sono al centro del commercio, della cultura e dell’istruzione e che hanno contribuito a rendere la musica meno significativa per il pubblico in generale.
“Gli ecosistemi della musica digitale, a partire da iTunes della Apple, hanno ridotto i dischi a un’immagine di copertina di dimensioni da francobollo e a tre dati: artista, titolo del brano, album” aggiunge. Cosa significa? Che nessuno conoscerà mai i nomi degli orchestrali, ad esempio, e di chi suona in un disco. Anche se nella maggior parte delle applicazioni streaming sono presenti biografie di artisti e compositori, gli album storici vengono venduti e trasmessi in streaming senza i titoli o le note di copertina dell’epoca che apparivano su LP e CD. Gli appassionati autentici di musica sono ormai troppo pochi per giustificare un tale servizio come lo si faceva con arte e passione una volta, ma soprattutto, spiega il giornalista americano, “si perde quella classe di esperti e di scrittori che infondeva entusiasmo nella cultura musicale”. Ecco che a pagare sono anche giornalisti e scrittori, i cosiddetti critici, ormai considerati irrilevanti nel panorama musicale.
Le radio, poi: “Sono un obiettivo facile, ma non si può non dire quanto profondamente siano cambiate tra l’esplosione della musica popolare nella metà del 20esimo secolo e il modello aziendale degli ultimi 30 anni. Quell’ethos della musicalità e della scoperta è stato sostituito da una cinica manipolazione dei dati demografici e dal più blando denominatore comune. Le playlist sono molto più brevi, con una manciata di singoli ripetuti incessantemente fino a quando i gruppi di marketing non dicono di cambiare canzoni. I dj non scelgono più la musica in base alla loro esperienza e non intrecciano più una narrazione attorno ai dischi. Come per le note di copertina, questo rende più passivo l’ascolto e riduce la dieta musicale della maggior parte delle persone fino a una manciata di successi su scala industriale, pesantemente prodotti”. E anche i dj diventa figure professionalmente inutili, facilmente sostituibili con i computer, perdendo così in umanità, calore, passione, gusto della scoperta. Quanta gente ha avuto la vita cambiata grazie all’esplosione delle radio libere negli anni 70, grazie allo spirito avventuriero di alcune persone che ci hanno mostrato un mondo musicale altrimenti sconosciuto? Stiamo tornando a prima di quel fenomeno, la musica trasmesso è decisa a tavolino per motivi commerciali, le nuove generazioni perdono decenni di storia per una manciata di canzoncine tormentone che spariranno nello spazio di una stagione.
Lo stesso vale per le riviste, le poche cartacee sopravvissute, e i siti musicali. Una volta sulla copertina di Time ci finivano Thelonius Monk, James Taylor, The Band: “Gli articoli erano subordinati al valore dell’artista e di quello che faceva. Oggi si pubblica in base a metriche del settore (posizione in classifica e vendite di biglietti per i concerti), sono queste cose alla base di “notizie” musicali. Nell’era dei clic misurati, il gruppo di marketing ha istituzionalizzato la camera dell’eco della musica pop, bloccando e scoraggiando l’impegno significativo verso la musica come forma d’arte”.
Infine viene sottolineata la perdita emotiva che la musica conteneva: “La musica è stata per decenni promossa e spiegata quasi esclusivamente come un talismano di emozioni. Il problema oggi invece è come ti fa sentire. La musica intesa come strumento d’arte fa riferimento alla matematica, all’architettura, alla poesia, alla spiritualità e alla filosofia. Tali argomenti sono stati sminuiti nella stampa generalista o nelle televisioni via cavo, rendendo la nostra capacità collettiva di relazionarci con la musica attraverso una lente atrofizzata. Quelli di noi che hanno conosciuto persone che ci hanno dimostrato che la musica fosse un bene per il cervello e il cuore, sono stati davvero fortunati”. Oggi la musica è solo una esperienza a livello dei sentimenti più banali e preconfezionati usa e getta.
L’articolo si conclude toccando il problema della poca o mancante del tutto educazione musicale nelle scuole, questo, va detto, problema sempre esistito in Italia: “L’educazione musicale rende i bambini più musicali. Coloro che interiorizzano le regole e i riti della musica nelle prime fasi della vita avranno più probabilità di assistere a concerti e avere un orecchio più aperto sulle loro scelte musicali da adulti”.
E’ uno scenario terribile, che coloro che lavorano a livelli diversi in campo musicale hanno capito da tempo, ma che viene censurato e manipolato da chi dalla musica sta cercando di raschiare il barile per motivi economici. Il problema però non è solo economico, è un impoverimento umano delle ultime e prossime generazioni che porterà a un mondo sempre più cinico, misero, disumano. Nessuno, come cantava Lou Reed, potrà più dire che “la musica mi ha salvato la vita”.