Nel precedente articolo ho cercato di spiegare perché l’epidemia di coronavirus non ha affatto colpito tutto il mondo con la stessa durezza, ma solo alcuni paesi che hanno gestito la situazione in modo disastroso, cominciando, ahinoi, proprio dall’Italia.

Ora vorrei invece parlare di alcune lezioni che dovremmo imparare da quanto è successo per evitare di continuare a sbagliare, come per molti aspetti sta già purtroppo accadendo.



1) Anzitutto, dobbiamo avere chiaro che, nonostante tutti i disagi sopportati, ci troviamo ancora in una situazione ad alto rischio, e ciò a causa degli errori del governo, dei suoi consiglieri scientifici e dell’Oms. Per prima cosa dovremmo, quindi, chiedergliene conto, pretendendo che si scusino con gli italiani e magari si dimettano pure, anziché continuare a vantarsi dei loro immaginari successi. Poi bisognerebbe cominciare a parlare dei paesi che hanno gestito al meglio la crisi: Australia e Nuova Zelanda (e non la “mitica” Corea del Sud né tantomeno la Germania, che ha sì fatto 5 volte meglio di noi, ma ben 30 volte peggio di loro), magari aggiungendo anche il dettaglio che le accuse più dure all’Oms vengono innanzitutto da loro e non solo da Trump, come invece stanno cercando di farci credere (il che equivale a farci credere che sono false).



2) Dobbiamo abbandonare le strategie fallimentari fin qui seguite e imparare dai paesi suddetti quelle che invece hanno funzionato, che a questo punto, essendo ormai inutile la prima, cioè la chiusura delle frontiere, che andava fatta subito, si riducono essenzialmente a due: eseguire controlli a tappeto, anche agli asintomatici, in modo da bloccare sul nascere i nuovi focolai, e proteggere gli anziani, che costituiscono la stragrande maggioranza delle vittime.

Speriamo che questo sia stato capito, ma è preoccupante che governo ed “esperti” ci stiano sommergendo sotto una marea di norme inutili e spesso addirittura inapplicabili, il che fa temere che vogliano coprirsi le spalle per poter poi, se qualcosa dovesse andare storto, dare la colpa alla gente “che non rispetta le regole”, come già è stato fatto durante la Fase 1 (in modo vergognoso, tanto più se si considera che mai nella loro storia gli italiani si erano dimostrati così disciplinati).



A che cavolo servono i guanti, per esempio? Il virus può attaccarsi alle mani come ai guanti: quindi, a meno che li cambiamo ogni cinque minuti, l’unico risultato che otterremo sarà aumentare l’inquinamento da plastica (non è che gli altri problemi, di cui non si parla più, siano spariti solo perché c’è il virus…). Poi qualcuno mi spiega come si fa a tenere la mascherina mentre si beve il caffè al bar? E se credete che sia davvero possibile mantenere sempre il “distanziamento sociale”, beh, provate ad andare in giro con un cerchio di due metri di diametro legato intorno alla vita senza urtare nessuno e poi ne riparliamo.

3) Dobbiamo prepararci al fatto che la domanda “Cosa dobbiamo fare per riaprire in sicurezza?” potrebbe ben presto convertirsi in un’altra assai più drammatica: “Cosa dobbiamo fare se ci accorgiamo che non si può riaprire in sicurezza?”. E per rispondere correttamente dobbiamo prima riflettere su uno slogan che fin qui abbiamo ascoltato (e molti anche ripetuto) in modo acritico: “La salute vale più dei soldi”. Non che in sé sia sbagliato, ma il problema è che senza i soldi non c’è neanche la salute. E non solo perché le cure mediche costano, ma anche e soprattutto perché il benessere rappresenta di per sé la miglior difesa della salute, mentre la povertà uccide, direttamente, ma soprattutto indirettamente, perché ci rende più vulnerabili al caldo, al freddo, alla fatica e alle stesse malattie.

Quindi, se vogliamo davvero difendere la nostra salute, paradossalmente la priorità assoluta dei prossimi mesi non potrà essere la difesa della salute, bensì far ripartire l’economia, anche a costo di avere di nuovo contagi e morti, perché altrimenti finiremo in bancarotta. E in un paese in bancarotta morirebbero molte più persone di quante ne potrebbe mai uccidere il virus.

4) Abbiamo dimostrato che anche noi siamo capaci di costruire un ospedale in una settimana come i cinesi (probabilmente anche migliore del loro). Finiamola, quindi, con la sesquipedale idiozia che l’Italia non sarebbe un paese ad alta tecnologia, identificando arbitrariamente quest’ultima con la tecnologia informatica e le aziende all’avanguardia con le grandi aziende. Quello che impedisce alle nostre piccole e medie imprese di esprimere tutto il loro straordinario potenziale non sono né le loro dimensioni né la loro (presunta) arretratezza, bensì le folli assurdità burocratiche che da decenni le stanno lentamente quanto inesorabilmente soffocando.

A parole sembra che tutti l’abbiano capito, intanto i soldi promessi faticano ad arrivare proprio per l’eccesso di burocrazia e la prevista sospensione per 3 anni del demenziale Codice degli appalti è sparita dal decreto Rilancio. Ammesso e non concesso che si rimedi più avanti, stiamo comunque perdendo altro tempo (che non abbiamo). E poi perché solo 3 anni? Se la sburocratizzazione va bene per l’emergenza, a maggior ragione deve andar bene per la normalità.

Qui senza cambiamenti rapidi e radicali rischiamo, come già nella crisi finanziaria del 2008, di perdere un gran numero di imprese sane e di avere una ripresa molto più lenta del resto d’Europa. Se accadesse di nuovo, usciremmo definitivamente dal gruppo dei paesi più avanzati.

5) Dobbiamo tornare a investire nella ricerca, cominciando dall’università. Sembra che lo si voglia fare davvero, ma attenti al tragico errore (che si stava rischiando di commettere anche prima del coronavirus) di investire solo nei settori “alla moda”: ieri l’ambiente, oggi la medicina. Questo significa non capire nulla di come funziona la scienza, dove spesso la soluzione a un problema arriva da un campo completamente diverso (per esempio, gran parte delle apparecchiature oggi usate negli ospedali sono nate grazie alla fisica atomica). E non dimentichiamo le materie umanistiche, perché, come abbiamo visto chiaramente in questo periodo, per resistere ai drammi della vita non basta il progresso tecnologico.

6) Quello che invece non dobbiamo assolutamente fare è aumentare (semmai migliorare) la spesa per la sanità (anche se in parte sarà inevitabile, ma cerchiamo almeno di limitare i danni). L’enorme debito pubblico (che era fuori controllo anche prima del virus) e l’assurdo livello di tassazione (il più alto del mondo) indicano chiaramente che già da molto tempo stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità e stiamo spendendo più di quanto ci possiamo permettere: e la spesa per la sanità è una delle più ingenti.

Chi, ciononostante, è favorevole ad aumentarla (cioè quasi tutti) lo giustifica col fatto che il disastro causato dal virus avrebbe dimostrato l’inadeguatezza del nostro sistema sanitario, dovuta ai tagli degli ultimi anni (più presunti che reali, in verità, dato che nel 2018 la spesa ha raggiunto il massimo storico con ben 116 miliardi). Ma, come abbiamo visto, lo tsunami che si è abbattuto sul nostro sistema sanitario (che comunque ha retto, sia pure a fatica) non è stato affatto causato dal virus in sé, bensì dagli imperdonabili errori del governo: se avessimo agito come Australia e Nuova Zelanda, dove ci sono stati 8mila contagi e 120 morti su una popolazione di circa 30 milioni di abitanti, i nostri reparti di terapia intensiva sarebbero stati più che sufficienti così come sono.

7) Un’altra cosa su cui non dobbiamo puntare eccessivamente è il digitale nella scuola e nell’università, come invece vorrebbero gli esperti di queste tecnologie (che spesso ne sono anche i produttori), nonché la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, che ha scritto su La Stampa che la teledidattica avrebbe prodotto in pochi mesi risultati che altrimenti avrebbero richiesto anni.

Francamente non capisco a cosa la ministra si riferisca: quello che invece mi pare chiaro è che non ha mai parlato con nessuno che vi sia stato davvero coinvolto, altrimenti saprebbe che la teledidattica è una fatica disumana, sia per i docenti che per gli studenti (soprattutto i più piccoli) e non ha prodotto praticamente nulla di utilizzabile in condizioni normali.

Perfino la sua utilità nell’emergenza è assai dubbia: se infatti in università ancora ancora siamo riusciti a barcamenarci, nelle scuole si è riusciti a insegnare ben poco, tanto che probabilmente sarebbe stato meglio non provarci nemmeno e far ripetere a tutti l’anno scolastico interrotto. Così invece a settembre metteremo professori già stanchi ancor prima di cominciare di fronte a studenti non adeguatamente preparati, per giunta in una situazione che prevedibilmente sarà ancora molto complicata: la formula perfetta per un disastro annunciato.

La verità è che alla scuola non serve affatto più digitale, bensì un digitale usato con più intelligenza, perché la comunicazione umana è in gran parte non verbale. Teoricamente l’abbiamo sempre saputo, ma adesso l’abbiamo toccato tutti con mano: vediamo di non dimenticarcelo.

8) Discorso analogo per il lavoro a distanza: va bene se si limita a integrare il lavoro normale (in università lo pratichiamo da ben prima che inventassero i computer), non andrebbe più bene se invece pretendesse di sostituirlo.

9) Dobbiamo prendere atto che le frontiere a volte servono e che la globalizzazione integrale non è così fantastica come all’inizio era sembrato, perché fa girare più in fretta non soltanto le cose buone, ma anche quelle cattive. L’avevamo già visto in parte con il terrorismo e poi con la crisi finanziaria, adesso con il virus dovrebbe essere diventato chiaro a tutti. E che si dovrà trovare un nuovo equilibrio ormai lo dicono tutti: il problema (che non sarà di facile soluzione) è come.

10) Infine, l’Europa. Ha brillato per la propria inconsistenza, ma negli ultimi giorni si è visto qualche segnale più incoraggiante. Certo, si tratta di cambiamenti ancora molto timidi e dettati assai più dalla paura che da una vera solidarietà, ma non è detto che la paura sia sempre una cattiva consigliera: dopo tutto, come dicevano gli antichi, “timor Dei initium sapientiae”… Sperare non costa nulla, quindi speriamo.

Ma se così non sarà, nessuno poi si lamenti se alle prossime elezioni vinceranno i partiti anti-europei: a quel punto non sarebbe solo inevitabile, ma anche giusto.

(2 – fine)

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