Adattare un romanzo sul grande schermo non è certo una facile impresa. Da una parte il riferimento letterario garantisce sicurezza sul fronte dello script e del successo della produzione, che ci si aspetta segua quella del testo; dall’altra film e libri obbediscono a regole ben diverse, e si fregiano ciascuno dei propri stili, linguaggi e tempistiche. La narrazione dei pensieri dei personaggi, elemento cardine in ogni romanzo che si rispetti, è rifuggita nella stesura di uno script, dove al voice-over si preferisce in genere un approccio che lasci parlare le immagini. Se ciò che funziona sulla carta non sempre risulta efficace sullo schermo, quali sono le scelte che determinano il valore di un adattamento?
Kya Clark (Daisy Edgar-Jones) è una giovane donna che vive in una laguna della Carolina del Nord, autosufficiente e soddisfatta della sua condizione di semi-isolamento. Tuttavia, la sua quiete non è destinata a durare: quando il quarterback Chase Andrews (Harris Dickinson) viene trovato morto nel suo territorio, Kya viene messa al banco degli imputati e accusata di omicidio a causa delle dicerie che circolano sul suo conto. La compassione dell’avvocato difensore (David Strathairn) e i flashback che ripercorrono la crescita di lei basteranno a portare il pubblico dalla sua parte, ma varrà lo stesso per la giuria chiamata a decidere della sua vita?
Per quanto il titolo originale della pellicola, Dove Cantano I Gamberi, risulti un po’ buffo nella nostra lingua – ed è infatti stato sostituito con La Ragazza della Palude – credo che esso sia rappresentativo del suo tono. Il film si apre su un uccello d’acqua dolce che sorvola agilmente una distesa di acqua immacolata, attorniata da una vegetazione rigogliosa e una fauna variegata. Un paesaggio di contrasti, tra la sua bellezza e i suoi pericoli; estraneo ai preconcetti che si risvegliano in noi, pubblico, e nei cittadini del paese vicino al sentire la parola “palude”; un luogo non toccato dalla morale dell’uomo, ma neanche dalla sua crudeltà. Le immagini della laguna risultano mozzafiato senza apparire artefatte, e presentano un ecosistema ricco di vita, una vita che si intreccia a doppio filo con quella della nostra eroina.
Questo è il momento in cui in altre circostanze scriverei che è l’ambientazione la vera protagonista – frase di cui ho abusato e che continuerò ad abusare -, ma non è questo il caso. Daisy Edgar-Jones è senza alcun dubbio la punta di diamante della pellicola, e regala un’interpretazione delicata e vissuta al tempo stesso. Kya è sempre vissuta nella palude e si è vista abbandonata in tenerissima età, prima da madre e fratelli, in fuga da un violento padre padrone, poi da quest’ultimo; sarà solo grazie alle sue forze, e al supporto di due venditori di stanza al confine della laguna, che riuscirà a ricostruire la sua vita da zero e trovare la pace in quel luogo segnato da tanti ricordi spiacevoli. La palude però non è la giungla di Mowgli o di Tarzan, e dista solo otto chilometri dall’aula di tribunale che segnerà il destino della giovane: dopo essersi assicurata una certa stabilità sul fronte sopravvivenza, Kya si troverà a confrontarsi la civiltà, amore e delusioni, pregiudizi e scoperte. Il confronto con l’altro non è sempre distruttivo, ma quando ferisce Kya quella è sempre pronta a rialzarsi: con fatica, certo, ma dimostrando spirito di iniziativa, forza d’animo e intelligenza.
Da luogo pieno di pericoli e privo delle comodità a cui siamo abituati, la palude diventa l’ancora della protagonista, una costante capace di dare lezioni anche dure che si incorporano nella crescita della protagonista.
Le finezze non mancano, sia nel reparto tecnico che nello script: la cornice del processo, entro la quale si snoda il passato di Kya, incorpora sagacemente entrambe, dando ritmo ai passaggi più compassati e proponendo accostamenti non scostati tra immagini e voice-over. Quest’ultimo è usato sia per le testimonianze del processo che per i pensieri della protagonista: una soluzione vagamente fastidiosa, eccetto quando è sfruttata per riproporre i passaggi più emblematici del romanzo. Capisco la sua utilità nel mostrare lo scorrere nel tempo, ma il film è al suo meglio quando si affida al puro linguaggio visivo; ad esempio, una panoramica esplora in modo continuativo lo sviluppo di un rapporto, richiamando l’iconico espediente sfruttato da Brian de Palma in Blow Out. Sul fronte sceneggiatura, una soluzione brillante per distinguere due personaggi chiavi senza affidarsi ai dialoghi è il modo in cui si approcciano alla dimora della protagonista, nonché l’uso del simbolismo in certi passaggi.
Considerato quanto il film si sofferma sul rapporto simbiotico tra protagonista e ambiente, il loro legame viene presentato in maniera fin troppo asettica: gli abitanti della città che spargono dicerie sul conto di Kya e la considerano una selvaggia ci devono sembrare supponenti, ma è impossibile prenderli lontanamente sul serio quando lei si presenta sempre con un aspetto immacolato, i capelli in ordine e vestiti graziosi. Tutti i personaggi che frequentano la palude sono sempre puliti in maniera quasi artefatta, e l’aspetto legato alla sopravvivenza in un ambiente ostile passa presto in secondo piano.
Non è questo l’unico spunto di trama che viene un po’ a perdersi con l’avanzare del minutaggio, probabilmente in virtù di tagli fatti per snellire la pellicola; a farla da padrone finisce quindi per essere la componente romantica, vitale per quanto concerne la questione processo ma poco originale e ispirata. Le paturnie amorose di Kya non seguono uno sviluppo organico quanto la sua crescita personale, e tendono a privilegiare i grandi momenti drammatici piuttosto che i piccoli gesti, prospettiva che sarebbe stata più in linea col resto della pellicola.
Inizialmente avrei voluto criticare anche la caratterizzazione di Andrew Chase, “vittima” il cui atteggiamento lo fa promuovere da faccia da schiaffi a faccia da badilate nei denti. Mi sono tuttavia ricreduto: avere un personaggio del tutto privo di lati positivi può risultare narrativamente insoddisfacente, ma è davvero così irrealistico?
Trasporre parole in immagini, se quelle parole erano destinate a una fruizione indipendente, non è impresa da poco, ed è destinata a comportare delle perdite. La Ragazza della Palude non è eccezione: il suo colpo di scena finale, alquanto prevedibile, sarebbe risultato più interessante se fosse stato mostrato anziché nascosto e rivelato infine come un coniglio dal cilindro. Nonostante qualche inciampo, la pellicola riesce nel trasmettere atmosfera e temi del romanzo originale, proponendo un’interpretazione di rilievo e immagini delicate.
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