Il 9 maggio 1921 a Forchtenberg, una piccola città nei pressi di Stoccarda, nasce Sophie Scholl. Il suo nome è indissolubilmente legato a quello della Rosa Bianca, utilizzato come firma di sei volantini anti-nazisti distribuiti principalmente per posta tra il giugno 1942 e il febbraio 1943. Non si tratta anzitutto di un movimento di resistenza, bensì di un gruppo di persone unite da una profonda amicizia. In una lettera Sophie parla così dei propri compagni: “Gioiresti di questi volti, se tu li potessi vedere”. Sono soprattutto studenti dell’Università di Monaco, ma un ruolo importante lo gioca anche il loro docente di filosofia Kurt Huber.
Il 18 febbraio 1943, insieme al fratello Hans, Sophie distribuisce copie del sesto volantino nell’atrio della sua università. Non si tratta di un gesto avventato: i due sapevano bene che cosa li aspettava. Il loro arresto fu il primo di una serie che vide coinvolti i membri della rete clandestina non solo a Monaco ma anche in altre città tedesche, a testimonianza della diffusione di questa trama di rapporti. Tutti furono giudicati colpevoli e condannati a pene esemplari. I fratelli Scholl e il prof. Huber, insieme ad altri tre amici, vennero condannati alla ghigliottina.
Si trattò di un fallimento, quindi? Da un punto di vista politico certamente sì. Come ha sostenuto qualche studioso, un episodio di velleitarismo giovanilistico, di incosciente idealismo romantico.
Non è tuttavia questo che traspare dalle loro biografie e dai loro scritti. Per comprendere il senso delle loro azioni, bisogna tornare alla loro amicizia e scoprire che cosa la rendeva così bella e necessaria. Si trattava di personalità assai diverse tra loro, unite da un’estrazione sociale borghese simile e in genere dalla fede cristiana protestante o cattolica. Ciò che però colpisce di più nelle loro personalità è una spiccata sensibilità per la bellezza e un insopprimibile desiderio di verità e di giustizia. Sono ragazzi talmente appassionati alla vita da non potersi accontentare di un’esistenza condotta nella bruttezza e nella menzogna. Un acuto spirito critico li spinge a chiedersi le ragioni di tutto, anche della tendenziale connivenza delle chiese cristiane col regime nazista. Sono giovani e hanno quindi bisogno di maestri e li trovano nei grandi del presente e del passato. Imparano dagli autori del rinnovamento cattolico francese (Claudel, Péguy, Bernanos, Maritain), dai grandi russi (Dostoevskij sopra tutti) e poi da Newman, Kierkegaard, Pascal, sant’Agostino.
Per gli amici della Rosa Bianca l’esistenza non è fatta a compartimenti. Si studia per vivere perché la vita ha bisogno della cultura per diventare consapevole di sé e per giudicare. E poi si cerca di agire coerentemente con tale giudizio. Solo una vita impegnata può umanamente fiorire.
Lungi dall’essere un’attività solipsistica, una vita così fatta si nutre di un continuo dialogo con altri similmente impegnati. Un dialogo che non è un mero strumento di compimento personale ma è il luogo dove questo accade, seppur in modo imperfetto e temporaneo. L’amicizia diviene così il bene umano più importante.
Si farebbe torto alla memoria di Sophie e dei suoi amici se non si evidenziasse che tale amicizia aprì loro le porte di un’altra dimensione di esperienza. Lo mette in luce Romano Guardini – uno dei maestri, seppur indiretti, della Rosa Bianca – nel suo discorso commemorativo dei sei condannati a morte tenuto il 4 novembre 1945 a Tubinga. Costoro hanno compiuto il sacrificio supremo “in unità di intenzione con Cristo”. Solo in tal modo esso trova senso in quanto diviene generativo, un “nuovo inizio” che consente agli uomini di ripartire dopo l’esperienza del male radicale totalitario. “In ultimo – dice Guardini – questo sacrificio è compiuto davanti a Dio solo, è affidato alla Sua sapienza ed è rimesso nelle Sue mani, affinché Egli lo inserisca nel grande conto del mondo, dove Egli vuole”.
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