In primo piano, nella pellicola La sala professori candidata all’Oscar 2024 nella categoria miglior film internazionale, troviamo una seconda media intelligente, vivace e multietnica, con insegnanti giovani e apparentemente dinamici. Spicca la nuova ed entusiasta professoressa di matematica ed educazione fisica, Carla Nowak, ben interpretata da Leonie Benesch, carina e gentile, anche se dal carattere un po’ spigoloso. Tutto sembra funzionare, senonché alcuni furti oscurano l’andamento tranquillo delle giornate e si sospetta proprio degli alunni della neoarrivata.



Le procedure sono severe, si interpellano i rappresentanti degli studenti e li si spinge, anche con qualche furba pressione psicologica, a denunciare il colpevole. Si arriva persino alla perquisizione dei ragazzi, ma sempre con la loro “collaborazione” volontaria, come si affrettano a ribadire i responsabili dell’istituto. Peccato che l’indagine serrata sia un buco nell’acqua e provochi solo il forte risentimento dei genitori di un ragazzino turco, segnalato dai compagni, e un clima di diffidenza reciproca tra gli scolari. Le prove certe della colpevolezza in realtà non ci sono, ma quella è una scuola “a tolleranza zero” e non si può ammettere che non sia in grado di assicurare la tutela della legalità.



Carla, al primo incarico, si schiera subito con i suoi allievi ed è convinta che i responsabili dei furti si trovino da tutt’altra parte: ritiene che siano gli adulti. Lei stessa ha visto di nascosto una collega rubare… Decide perciò di scoprire i veri colpevoli, lasciando accesa la telecamera del suo computer in sala professori e tendendo l’esca del suo portafoglio, “dimenticato” apposta nella tasca della giacca appoggiata sulla sedia. Qui già molti dei professori italiani che andranno a vedere il film si chiederanno chi di loro mai lascerebbe un bel computer aperto e incustodito in sala professori…



Comunque la docente-investigatrice ottiene la prova che cercava: la telecamera ha registrato l’avvicinamento sospetto di una persona alla sua sedia e lei ritrova il portafoglio alleggerito. Nel video non si riconosce il volto del ladro, ma si distingue perfettamente una camicetta dalle decorazioni particolari, che è indossata proprio quel giorno da una segretaria considerata insospettabile. Carla, stupita ma rinfrancata dalla scoperta che elimina gli indizi malevoli sui suoi amati alunni, prova a risolvere la questione, con gentilezza ma anche decisione, con la diretta interessata, che tra l’altro è madre di un suo ottimo studente. Poi (finalmente diremmo noi) si rivolge alla stessa preside.

Ma aver coinvolto la responsabile ultima della scuola scatena un putiferio, perché la donna indicata come autrice del furto dal portafoglio si sente gravemente offesa e nega con convinzione ogni addebito. Tra l’altro l’uso della telecamera negli ambienti della scuola è illegale, perché viola la privacy. Quindi, la situazione si rovescia e la nuova accusata è proprio Carla, verso cui gli altri insegnanti già non provavano una particolare simpatia. Ciascuno infatti si preoccupa più che altro di difendere il suo personale punto di vista sul sistema scolastico. Da questo momento nasce una catena di eventi imprevisti, sgradevoli e persino drammatici, che coinvolgono tutto l’istituto: preside, docenti, alunni e genitori. E il finale, che lascia l’amaro in bocca come del resto tutta la ricostruzione puntigliosa dei fatti, fredda e implacabile, ci interroga non poco. Se questo è quello che accade nella ben strutturata scuola tedesca, che ne sarà della nostra, che quasi sembra abbandonata a se stessa e sopravvive spesso solo grazie all’iniziativa e alla dedizione di presidi illuminati e all’ammirevole passione personale di tanti generosi docenti?

Forse occorre soffermarsi proprio sulla giovane, inesperta ma determinata professoressa tanto legata ai suoi ragazzi, che però a un certo punto le si rivoltano contro, non riconoscendo più tutto quello che lei ha fatto per loro con intelligente creatività, e improvvisamente non accettano nemmeno la sua autorità. Perché un fallimento così clamoroso di fronte a un impegno senza riserve? Sì, qualche errore, e anche grave, c’è stato, ma perché non si riesce a recuperare il bene pur costruito e i rapporti si sfaldano in modo tanto eclatante? Non c’è dunque speranza per la scuola, neanche per chi vuole fare sul serio?

Non siamo convinti che il verdetto debba essere per forza così deludente e inappellabile, e lo diciamo proprio sulla base di esperienze nella scuola italiana sia statale che paritaria, che aprono il cuore alla fiducia. Ma ci sono condizioni irrinunciabili, se si vuole costruire un sistema scolastico dove i ragazzi frequentino con gioia e i docenti insegnino con entusiasmo e serietà. Non bastano sicuramente le regole, le procedure e l’eventuale “tolleranza zero”, sbandierata come garanzia di un percorso di istruzione che funziona. Ci vuole anche e soprattutto altro, diciamo “una comunità educante”, termine forse fin troppo utilizzato, che indica però un’esperienza comune, con un progetto realmente condiviso, che va ben oltre i vari “piani formativi”, ricchi di parole ma forse poveri di vita.

Conosciamo un istituto che ha scelto come slogan una frase del poeta inglese Eliot: “There is no life that is not in community”. Questo è tanto più vero per la scuola, dove docenti e genitori non devono essere “l’un contro l’altro armati”, perché solo la loro stretta e sincera partecipazione e collaborazione possono dare il frutto sperato: la crescita dei ragazzi. Ecco, se il film di Catak spingerà famiglie e scuola, per contrasto alla tristezza della vicenda scolastica tedesca narrata, a un’inedita e creativa alleanza educativa, allora non lo si sarà guardato invano. Da soli gli insegnanti si riducono a semplici funzionari che non sempre funzionano e i genitori a pretenziosi sindacalisti.

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