Nei commenti che si succedono sulla figura di papa Benedetto l’attenzione cade sulla sua persona, il suo stile, la sua umanità dolce e gentile. Tutto ciò è importante. Ratzinger ha saputo, nonostante il suo riserbo, conquistarsi la stima e l’affetto di milioni di uomini. E tuttavia colui che ha governato la Chiesa per otto anni, dal 2005 al 2013, è stato grande anche per il modo in cui ha percepito l’essenza del cristianesimo nel mondo contemporaneo.



Un modo che si riflette nella sua scelta di scrivere tre encicliche dedicate alle tre virtù teologali: Deus caritas est (2005), Spe salvi (2007), Lumen fidei, del 2013 che esce sotto il nome del nuovo papa Francesco. Che si manifesta altresì nella decisione di scrivere e pubblicare tre volumi sulla vita di Gesù di Nazareth nel 2007, nel 2011, nel 2012. Ciò che si palesa, nelle encicliche e nei volumi è un un modo storico di intendere la fede.



La teologia di Ratzinger è storica, questo è il lascito spirituale ed intellettuale che egli consegna alla Chiesa. Illuminante, da questo punto di vista, è la sua biografia, il documento che, più di altri, ci apre le porte sulla sua formazione.

Qui Ratzinger chiarisce gli autori che, nei suoi studi giovanili, ha sentito affini, e quelli, invece, verso cui maturava una distanza. La teologia di Ratzinger è, da subito, una teologia esistenziale, personalistico-agostiniana, distante dai moduli astratti della neoscolastica dominante prima del Concilio.

“L’incontro con il personalismo, che poi trovammo esplicitato con grande forza persuasiva nel grande pensatore ebreo Martin Buber, fu un evento che segnò profondamente il mio cammino spirituale, anche se il personalismo, nel mio caso, si legò quasi da sé con il pensiero di Agostino che, nelle Confessioni, mi venne incontro in tutta la sua passionalità e profondità umane.



Ebbi, invece, delle difficoltà nell’accesso al pensiero di Tommaso d’Aquino, la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, troppo impersonale e preconfezionata. Ciò dipese probabilmente anche dal fatto che il filosofo del nostro seminario, Arnold Wilmsen, ci presentava un rigido tomismo neoscolastico, che per me era semplicemente troppo lontano dalle mie domande personali” (J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, 1997, p. 44).

La distanza del giovane Ratzinger dall’intellettualismo neoscolastico non prelude ad un atteggiamento antimetafisico, come documenta la sua insistenza, da Papa, sul nesso fondamentale tra fede e ragione. Indica, però, una sottolineatura particolare della dimensione storica della fede la cui attualità non può essere esaurita da nessuna trascrizione filosofica. Il primato della realtà sull’idea, che costituisce un principio fondamentale della gnoseologia di Jorge Mario Bergoglio, è un punto fermo anche in Ratzinger. Ciò implica, dal punto di vista cristiano, un accordo tra storia della salvezza e metafisica che non sacrifichi la prima alla seconda e questo senza acconsentire al fideismo tipico della posizione protestante. Come scriverà l’autore nella prefazione americana del suo volume del 1959 San Bonaventura. La teologia della storia:

“Quando nell’autunno del 1953 iniziai il lavoro di preparazione per questo studio, una delle questioni che occupavano un posto di primo piano all’interno dei circoli teologici cattolici di lingua tedesca era la questione concernente la relazione tra storia della salvezza e metafisica. Si trattava di un problema sorto soprattutto dai contatti con la teologia protestante che, sin dai tempi di Lutero, tendeva a vedere nel pensiero metafisico un allontanamento dall’istanza specifica della fede cristiana, la quale non indica semplicemente all’uomo la via verso l’eterno ma verso quel Dio che opera nel tempo e nella storia.

A questo riguardo sorsero interrogativi di carattere differente e di diverso ordine. Come può divenire storicamente presente ciò che è avvenuto? Come può avere un significato universale ciò che è unico e irripetibile? Ma, d’altra parte, la ‘ellenizzazione’ della cristianità, che tentò di vincere lo scandalo del particolare attraverso una miscela di fede e metafisica, non ha forse portato ad uno sviluppo in direzione sbagliata? Non ha creato uno stile statico di pensiero che non è in grado di rendere giustizia al dinamismo dello stile biblico? Queste domande esercitarono su di me un forte influsso ed io intendevo dare il mio contributo per rispondere ad esse” (J. Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, Porziuncola, 2008, pp. 9-10).

Il giovane Ratzinger partecipava qui ad una tendenza che qualificava la parte migliore del pensiero cattolico, unitamente a quello protestante, del Novecento. Come scriveva Hans Urs von Balthasar nel 1951: “È certamente vero che oggi la teologia cattolica è dominata dall’inarrestabile tendenza a comprendere la storicità nella sua ampiezza e profondità. Preparato in Germania dalla scuola di Tubinga, in Francia da Blondel e Laberthonnière, in Inghilterra dalla scuola di Oxford e da Newman, questo movimento è rappresentato da tutti i maggiori pensatori cattolici” (H.U. Von Balthasar, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, 1977, p. 358).

Nel contesto di allora questa direzione doveva muoversi evitando due tendenze contrarie: quella modernista condannata da Pio XII con la Humani generis, che favoriva il disprezzo degli aspetti razionali e filosofici della teologia; lo scolasticismo arido e razionalistico di un certo tomismo ufficiale dimentico della storicità della Rivelazione. Fuori da questi estremi si muoveva la riflessione di colui che Ratzinger ha sempre considerato come suo “maestro”: Gottlieb Söhngen, professore di teologia fondamentale presso la facoltà teologica di Monaco di Baviera.

In Germania Söhngen è uno dei primi che avvia un ripensamento della teologia come historia salutis, centrale poi nel Concilio Vaticano II. In un saggio del 1967 Ratzinger osserverà come “non si è ancora studiato il problema di quando e dove precisamente abbia avuto luogo la ricezione dell’idea di storia della salvezza in ambito cattolico. A mio modo di vedere nell’ambito della lingua tedesca per primo fu Gottlieb Söhngen che individuò il problema nel dialogo con Karl Barth ed Emil Brunner” (J. Ratzinger, Storia della salvezza ed escatologia, in Id., Storia e dogma, Jaca Book, 1971, p. 74).

Per Söhngen, il quale sottolineava “con forza che la verità del cristianesimo non è quella di un’idea valida in generale, ma la verità di un fatto avvenuto una volta sola” (Op. cit., p. 75), la complementarità tra modello metafisico-astratto e quello storico-concreto era la chiave del discorso cattolico.

Sotto la guida del suo maestro anche il giovane Ratzinger avvertiva l’urgenza di una concezione storica della salvezza come correttivo di un modo di impostare le questioni eccessivamente dislocato sul terreno metafisico. Il primo lavoro di Ratzinger, su suggerimento di Söhngen, è la dissertazione per il dottorato su Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino. Una ricerca preziosa in cui l’autore tentava “di approfondire il modo in cui la concezione storica è andata sempre più imponendosi in Agostino nei confronti di una posizione inizialmente quasi puramente ontologica”. (J. Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, cit., p. 114, nota 88).

Agostino, quindi, come correttivo all’eredità della scolastica, contrassegnata da un pensiero astorico. Correttivo parziale, però, nella misura in cui “Agostino nel De civitate Dei interrompe la storia dello stato di Dio con la nascita di Cristo e non include la storia della Chiesa nella sua considerazione” (J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, Jaca Book, 1971, p. 321, nota 27). Vero è che “una certa valenza propria della storia della Chiesa si afferma manifestamente nei noti racconti di miracoli del De civitate Dei, XXII 8 col 760-771. Teologicamente questi racconti significano senza dubbio un nuovo sviluppo del pensiero di Agostino” (Op. cit., p. 321, nota 29). Una direzione feconda che, tuttavia, richiedeva una riflessione ulteriore. È in questa prospettiva che si situa il secondo lavoro di Ratzinger, la tesi di abilitazione per la libera docenza in teologia, a Monaco, San Bonaventura. La teologia della storia.

Il grande maestro francescano offriva, al giovane teologo, la possibilità di delineare una teologia della storia comprensiva della Chiesa, capace quindi di delineare la presenza di Cristo nel tempo. Un cristocentrismo, quello bonaventuriano, che non incorreva nella trasformazione della necessità fattuale in quella metafisica. Il che è quanto accade, nel Novecento, nella dottrina della creazione, radicalmente cristologica, di Karl Barth, e, nel Medioevo, nella teologia francescana – e qui Ratzinger pensa a Duns Scoto –, “la quale si presenta dapprima come rigorosamente storico-salvifica, cioè cristologica, poi però nella esasperazione di tale punto di partenza dà all’insieme un ruolo metafisico nell’idea della praedestinatio absoluta di Cristo e raggiunge così l’abbandono del progetto originariamente storico-salvifico” (Op. cit., p. 318, nota 15). La cristologia metafisica corre costantemente il rischio di risolvere la verité de fait nella verité de raison, di schiacciare l’Evento nella struttura, l’Unico nel modello. Non così in Bonaventura, per il quale Cristo come “centro” è inizio di una storia nuova al cui culmine v’è, nel tempo a lui presente, la figura cristologica di Francesco d’Assisi, la figura della santità come dilatazione di Cristo nel tempo.

Il tragitto ideale da Agostino a Bonaventura diviene in tal modo, nel giovane teologo, la via di scoperta della teologia della storia, di un approccio storico al cristianesimo. È a questo livello che si pone la differenza tra la sua prospettiva teologica e quella di Karl Rahner. “La sua teologia [di Rahner] – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e della sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui alla fin fine la Scrittura e i padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai padri, da un pensiero essenzialmente storico. In quei giorni [durante il Concilio, nel 1962] ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui ero passato, e quella di Rahner” (J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, cit., p. 95).

Una differenza essenziale, tra teologia trascendentale di ascendenza idealistico-kantiana e teologia realistico-storica, che attraverserà tutto il pensiero teologico postconciliare e troverà la sua espressione dialettica nelle due riviste che qualificheranno due indirizzi ideali: Concilium da un lato e Communio dall’altro. La riflessione di Ratzinger si poneva al di là della frattura che segna la teologia cristiana odierna, divisa tra una storia della salvezza radicalmente contraria alla metafisica – come accade nella teologia protestante (Barth, Bultmann, Culmann, Moltmann) – e un cristocentrismo ontologico (trascendentale o cosmico), di matrice cattolica, che svuota la novità della storia della salvezza. Il pensiero cristiano, secondo Ratzinger, se voleva avere un futuro doveva ritrovare la giusta “tensione fra ontologia e storia”, la quale “ha il suo fondamento ultimo nella tensione dello stesso essere umano, che dev’essere fuori di sé per poter essere in sé” (J. Ratzinger, Salvezza e storia, in Storia e dogma, cit., p. 110). Si rende così manifesto come “salvezza in quanto storia dice proprio che l’uomo non trova la salvezza nel venire-a-sé della riflessione, ma nell’essere portato-via-da-sé che va oltre la riflessione” (Op. cit., p. 109). Con ciò viene in primo piano la categoria dell’extra, dell’evento, di ciò che sta fuori del cerchio dell’io. È qui che si apre la dimensione storica della fede.

“La fede poggia sul fatto che ci viene incontro qualcosa (o qualcuno) a cui la nostra esperienza di per sé non riesce a giungere. Non è l’esperienza che si amplia o si approfondisce – come nel caso dei modelli rigorosamente ‘mistici’ – ma è qualcosa che accade. Le categorie di ‘incontro’, ‘alterità’ (alterité, Lévinas), evento, descrivono l’intima origine della fede cristiana e indicano i limiti del concetto di ‘esperienza’. Indubbiamente ciò che ci tocca ci procura esperienza, ma esperienza come frutto di un evento, non di una discesa nel profondo di noi stessi. È proprio questo che si intende col concetto di rivelazione: il non-proprio, ciò che non appartiene alla sfera mia propria, mi si avvicina e mi porta via da me, al di là di me, crea qualcosa di nuovo. Questo è ciò che determina anche la storicità della realtà cristiana, che poggia su eventi e non sulla percezione della profondità del proprio intimo” (J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, 2003, pp. 91-92).

Forte di questa prospettiva Ratzinger ha criticato, con profonda competenza, gli indirizzi razionalistici derivati da un uso improprio del metodo storico-critico in sede esegetica. Un metodo che, laddove non venga assunto con consapevolezza critica, soggiace al dualismo illuministico tra verità di ragione e verità di fatto. È quanto accade nella teologia kerygmatica di Rudolf Bultmann. “Per Dibelius, Bultmann e la corrente principale dell’esegesi moderna, l’evento è l’elemento irrazionale. Esso appartiene al dominio della pura fatticità, composta dal caso e dalla necessità. Come tale, il fatto non può essere portatore di senso. Questo senso non è che nella parola; e là dove gli avvenimenti stessi sembrano essere portatori di senso, bisogna piuttosto considerarli come illustrazioni della parola e ad essa occorre riferirli” (J. Ratzinger, L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea, in AA.VV., L’esegesi cristiana oggi, Piemme, 1991, p. 118).

Questa impostazione, riducendo l’evento storico a fatto “particolare”, irrazionale, si vieta, apriori, la possibilità che Dio possa manifestarsi nella storia. L’invisibile non può farsi visibile, il Verbo non può farsi carne. Con ciò questo metodo dimostra di essere legato ad una pregiudiziale che condiziona il lavoro della ragione. Diversamente, secondo Ratzinger, “occorre considerare tanto la parola quanto l’evento come originali, se si desidera restare fedeli alla prospettiva biblica. Il dualismo tra la parola e l’evento, che relega l’evento in una regione ‘senza parola’, cioè senza significato, in realtà toglie anche alla parola la sua forza significante, perché questa si trova allora in un mondo privo di senso. Questo dualismo conduce ad una cristologia docetista, in cui la realtà, cioè l’esistenza concreta e carnale del Cristo e quella dell’uomo in generale, è esclusa dall’ambito del significato. Ma in questo modo si perde l’essenza della testimonianza biblica” (Op. cit., p. 120).

Questa “testimonianza biblica”, fondata sulla realtà storica, è al cuore della teologia di Ratzinger. Per essa, da teologo e da Papa, si è battuto contro le forme “docetiste”, gnostiche, che svuotano, oggi come ieri, il messaggio cristiano, che impediscono al Verbo di farsi “carne”. È il lascito che consegna alla Chiesa e al pensiero cattolico. Come ha scritto nel suo testamento spirituale: “Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita – e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo” (L’integrale. Ecco il testamento spirituale di Benedetto: “Grazie a Dio e famiglia”, Avvenire, 31 dic. 2022)

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