Avevo 12 anni e doveva essere l’estate del ’67, quella di “Sgt. Pepper’s”dei Beatles. E appunto da ragazzino beatlesiano fino al midollo, ma stranamente influenzato per parte di madre dal canto swingante di Mina, Frank Sinatra ed Ella Fitzgerald, mi imbattei in quella scatola. Meravigliosamente cartonata, nera, elegantissima, con un disegno raffinato che riproduceva quattro suonatori d’arco: due violini, un violoncello, una viola. The Budapest String Quartet, diceva la copertina, Beethoven: “The Middle Quartets”: i 3 Razumowski op.59, l’op.74 “Delle arpe” e l’op.95. Tenete presente che il grande Ludwig, allora, per me non era che quello del “tatatatà”. Curioso aprii la scatola, presi in mano quei 4 lp della Cbs dall’etichetta azzurro intenso e cominciai a rigirarmeli fra le mani. Poi li posai sul giradischi – vecchio arnese preistorico per trasformare in musica il vinile – e ne venne un suono nuovo, sconvolgente.
Vabbé, avevo già sentito qualcosa di simile in Yesterday e Eleanor Rigby, ma qui non c’era nessuna voce, nessuna chitarra e invece al loro posto una straordinaria, armoniosa, compattezza sonora. Fu amore a prima vista, li ascoltavo per ore. Mio nonno Guido, di fronte a tanta determinazione, decise di regalarmeli. A quella prima acquisizione seguirono scoperte su scoperte: Mozart, Haydn, Schubert, Mendelsohn, Brahms, Tchaikovski, Ravel, Debussy, quasi tutti avevano scritto quartetti per archi, fino a Dvorak, Sibelius, Borodin, Bartok, Janacek, Britten, Schostakovic… Ma Beethoven, Beethoven restava una cosa speciale. Dai primi quartetti dell’op.18 a quelli scoperti col Budapest su su fino alla maestosa sequenza degli ultimi: op.127, 130, 131, 132, 135, 133: la Grande Fuga. Alla fine degli anni Settanta li copiai tutti, nell’esecuzione del Quartetto Amadeus, su un mucchietto di cassette che mi portavo dietro dappertutto, in macchina come in vacanza o in trasferta sul walkman. Naturalmente sono stati fra i primi cd ad essere caricati, stavolta eseguiti dal Quartetto Italiano, sul mio iPod.
Ora, per farvi capire questa mia insana passione, vorrei ci fosse stati, per esempio ieri sera a Milano, ad ascoltare tre quartetti Beethoveniani eseguiti meravigliosamente dai francesi del Quartetto Ysaÿe. Erano voci, erano canti, erano la perfezione di un equilibrio frutto di consuetudine e comunione d’intenti, di ascolto reciproco e profondità di lettura.
La Società del Quartetto è nata da quest’amore alla musica della parte più intelligente colta della borghesia milanese, che da generazioni si passa il testimone di questa bellezza. In questa sala, il Conservatorio Verdi di Milano, la Società ha portato tutte le grandi formazioni nel mondo: l’Amadeus, il Tokyo, il Borodin, il Tatrai, il La Salle, il Budapest, il Vegh, il Julliard, l’Emerson e, perla fra le perle, il Quartetto Italiano, che nelle aule adiacenti tramandava ai più giovani la sua arte. Averli ascoltati è stato un privilegio, e chissà quanti altri ne verranno.
Arte difficile dell’ascolto, quella del quartetto? Certo, arte essenziale che è incontro di voci raffinate, mai invadenti, niente a che vedere coi colori del grande sinfonismo. Ma arte, anzi forma, che è stata luogo di riposo, di raccoglimento e di ripartenza per ogni genio musicale d’Occidente. Uno scrigno senza eguali della nostra cultura, un’eredità preziosa. Cominciate con “La morte e la fanciulla” di Schubert o con “Le arpe” di Beethoven, o con “le dissonanze” di Mozart, ma inoltratevi per questo sentiero, siate rockettari incalliti, cultori del gregoriano o amanti del Verdi più travolgente. Scoprirete un mondo sottile, appartato, che parla al cuore in segreto.