Lettera scritta alla Scala, venerdì scorso, per l’esecuzione della “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi. Orchestra e Coro del teatro, solisti: Frittoli, Ganassi, Kaufmann e Pape, direttore Daniel Barenboim.

Illustre maestro,
                             metto le mani avanti: son qui ad ascoltare il “suo” Requiem verdiano un po’ da… vedovo. Vedovo come gli “abbadiani”, i “callasiani”, i “toscaniniani”, i “beatlesiani”. Vedovo, però, per quanto mi riguarda, di una cosa viva e vegeta, anzi piantata nella memoria.

Questi stessi suoi artisti scaligeri li ho ascoltati diretti, proprio in questo Requiem e un po’ in tutto mondo – proprio come sta facendo lei – dal maestro Riccardo Muti. Questo Requiem è sempre stato un po’ una griffe per loro, un biglietto da visita, fin dai tempi di Abbado. Ma ero troppo giovane, e il ricordo è ormai svanito. Per cui nella mia memoria sonora ed emozionale è l’equazione Muti-Scala-Requiem-Verdi-Italia a pesare come un macigno.

Con lei, grande artista cosmopolita, so già che sarà tutta un’altra storia. Quale son qui stasera a scoprirlo. Fin dalle prime note, quel meraviglioso, malinconico sussurro degli archi, capisco che ha un profondo rispetto per questa partitura, che ne riconosce l’imponenza teatrale, musicale e forse anche spirituale. I comparti, archi, legni, ottoni, percussioni, masse vocali e solisti, sono valorizzati e adeguatamente sospinti: una lettura sinfonica, potente, importante.

 

 

Lei sceglie l’enfasi e la statura virile in luogo dell’alternarsi di struggimenti interiori e tormenti.
Le sue dinamiche son sempre muscolari, a volte di ascendenza orientale, quasi… russa (le parti più scatenate del Dies Irae). A volte, per pigrizia, gli ottoni non sembrano a posto. Però ha scelto anche per loro una violenza espressiva sorprendente, quasi immotivata nel suo nascere, in una logica di colori contrapposti, di piani confliggenti a macchia di leopardo, che definiscono del Requiem una lettura più espressionista che testuale, nel senso di "a servizio del testo” e del suo doloroso meditare sul destino dell’uomo secondo le antiche parole della liturgia cristiana.

Il vecchio Verdi, pensando all’amato Manzoni cui è dedicato, vi si immerge con tutta la sua arte e umanità, da laico "cattolico", anche se non credente. Altra radice non ha, è figlio di una terra e del suo campanile. Lei maestro Barenboim, cosmopolita e grande affilatore di suoni, ne coglie la potenza estetica ma forse non il rovello profondo, non le malinconie scosse dall’amarezza e insieme la gloria riconosciuta. Una gloria forse sentita da Verdi come distante, ma di certo a tratti cantata come voce intima del cuore.

Questo che significa nella versione alla Barenboim di questo "must" scaligero? Che a tratti il Requiem ha accenti fragorosamente sinfonici fino a scadere nella dozzinalità con cui per anni si è definito Verdi.
Rieccoli il fragore di grancassa e lo zum-pa-pa, l’Italia temperamentale da cartolina, ma per ritornare subito dopo (Lacrimosa) a zone più sottili e sofferte. Il problema è che non c’è continuità fra le due facce, non c’è derivazione, filiazione, comunione.
E il fraseggiar di archi misterioso intorno al canto dei solisti all’Offertorio? Bello, ma assai poco italiano, assai poco di cuore, così come la parabola discendente del canto.

Illustre maestro, stavolta all’Hostias et preces tibi non abbiamo provato la consueta commozione, mi dica lei perché.
Bello il "suo” Lux Aeterna, bella la concertazione di solisti e orchestra. Ma mancava il percorso, il cammino tutto intero, l’emozione che manda a casa pensosi.

Il successo, quello sì, è stato fenomenale e il consenso senza increspature. Questa Scala ha per lei grande affetto, e glielo dimostra ogni volta.