La “Carmen” di Bizet, diretta da Barenboim con la regia di Emma Dante, a inaugurazione della nuova stagione del Teatro alla Scala non ha deluso. Una serata importante, con i suoi trionfi e le sue contestazioni, i suoi debutti e le sue conferme.
IlSussidiario.net ha seguito l’evento in diretta con i propri lettori. Una discussione viva, con le divagazioni, gli entusiasmi e le diatribe che un evento del genere può regalare a un pubblico di appassionati, anche se di varia formazione, età e gusto. Un palco virtuale dal  quale si è potuto ascoltare, discutere e confrontarsi. Da rileggere.
Massimo Bernardini ha imbeccato i lettori con una recensione a caldo, atto per atto. La riproponiamo in questa forma, dinamica e senza ripensamenti.

Introduzione

Carmen, l’opera più eseguita al mondo. Carmen scritta da un Georges Bizet trentenne e messa in scena a pochi mesi dalla morte a 37 anni. Carmen novella di Merimée scritta 30 anni prima della musica, Carmen amatissima da Ciaikovskij e che fu per Nietzsche l’addio all’amato Wagner, l’alternativa solare, mediterranea, sensuale al cupo genio del nord.
Carmen apre ancora una volta la stagione delle stagioni, quella della Scala, e stavolta si chiama Anita Rachvelishvili. La sua vittima Don José è Jonas Kaufmann, la sua rivale Micaela Adriana Damato, il torero Escamillo Erwin Schrott.
A riprendere in mano la partitura è Daniel Barenboim, a metterci le mani in scena una avanguardista politicamente corretta come Emma Dante, che di teatro musicale non sa nulla.
Vi diremo la nostra atto per atto, a caldo, e magari domani ci pentiremo di quanto scritto. Ma garantiamo assenza di pregiudizi e voglia di coinvolgimento. A fra poco.

(Massimo Bernardini)

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Recensione Primo Atto:

Smemorato: aspetti il “Prelude” di Carmen e parte invece il “Fratelli d’Italia” per il presidente Napolitano. Tutti in piedi e parte uno dei pezzi sinfonici forse più popolari al mondo. Orchestra in gran spolvero, Barenboim netto ed essenziale. Si apre la piazza e una donna partorisce per terra: è più Sicilia che Siviglia, e al solito i soldati sono almeno un po’ “nazi”: sennò che innovazione è?
Preti e chierichetti sorvegliano Micaela, la ragazza per bene. L’entrata dei monelli in mutande è un po’ folle e sconcertante, ma è una ventata di allegria e di sole, in quella scena catafratta vagamente alla Sironi delle fabbriche dipinte negli anni Trenta.
Grande vitalità in orchestra e coro, però. Arrivano le sigaraie e invece che le sprezzanti fanciulle dalla sigaretta in bocca del libretto ecco una pattuglia di suore con tanto di fiore in bocca che poi si spogliano e si lavano in una fontana. Donne al lavacro, allegre, sensuali, divorate dagli sguardi maschili.
Anita Rachvelishvili entra con alcune bimbe ma ha subito grande autorevolezza vocale. Capelli corvini in quantità, voce possente, è la capopopolo del pianeta femminile: il suo corpo ha la sensualità di un donnone forte e padronale, le sue forme larghe sono senza vergogna.
Don José ha già perso la testa, e quando la sua Micaela-casa-e-chiesa gli porta la lettera di mamma riecco il prete, i chierici e la croce. Per chi non l’avesse capito, dove c’è una donna conformista c’è la Chiesa oppressiva e soffocante. Peccato che il meraviglioso duetto di Bizet (bravi per ora Jonas Kaufmann e Adriana Damato) ci comunichi invece malinconia e dolcezza, rimpianto e struggimento. Niente da fare, per Emma Dante la fidanzata è prigioniera di un velo da sposa oppressivo, e naturalmente è placcata a vista dal prete.
Tornano le popolane in sottoveste, litigano un po’ tutte fra loro, trattenute a stento dai soldati. La scena ha una sua potenza sguaiata ed eccessiva, con un’appendice di aggressione e quasi stupro fra donne e soldati che stravolge decisamente il libretto originale, dove le guardie fanno invece da semplice paciere fra le donne scatenate. Così come l’arresto di Carmen è quasi una tortura, anche se le grandi corde che la bloccano sono ugualmente le stesse che stanno portando alla rovina il probo Don José già stravolto.
Come per l’habanera, anche nella seguedilla Anita è decisamente intrigante, la voce possente, solida, sicura. Forse troppo poco insinuante. Ma c’è tempo per capirne di più. A fra poco.

(Massimo Bernardini)

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Recensione Secondo Atto:

Come fai a criticare una Carmen georgiana di 25 anni, Anita Rachvelishvili, frutto dell’Accademia della Scala, che durante l’intervallo del primo atto ringrazia il suo presidente perché ha pagato l’aereo ai suoi genitori e sua sorella per farli partecipare alla sua festa di debutto. Vediamo come s’inoltra nel secondo atto.
Veramente la prima meraviglia è la finezza di esecuzione dell'”Entr’acte”, con Barenboim pinguemente appollaiato sul suo sgabello, sereno e padrone di un suono possente e autorevole.
La scena è una grotta-osteria e Anita-Carmen, stavolta coloratissima, domina un ballo fresco e sensuale, pieno di rosso. Ballano gli zingari sgangherati e selvaggi, in un disordine decisamente piacevole (anche quella chiattona di Carmen) ma c’è il tempo perché qualche maschio (sottotesto insistito della Dante) assesti immotivati calci alle signore.
Poi il torero Escamillo scende dall’alto, contornato da strani signori fra il Ku Klux Klan e le confraternite siciliane, ma nonostante la bella prestanza vocale, Erwin Schrott ha una pronuncia francese che grida vendetta.
Nel 2009 è francamente inaccettabile, sembra parli cinese (quando recita poi…). Appaiono al suo fianco, al culmine del suo sanguinoso racconto di corrida, diapositive vere di poveri tori uccisi e sanguinolenti, ma non senza ragione in libretto.
È il momento dei comprimari Dancairo, Remendado, Frasquita e Mercedes, tutti freschissimi e brillanti nel canzonare Carmen-Anita che si dice innamorata. Ma eccoci al duo Carmen-José. Si incontro-scontrano su un drappo rosso rotondo come fosse un pranzo orientale e Anita si fa sensuale e sprezzante, alza le gonne e si accarezza i capelli, cavalca e spoglia il suo uomo-oggetto. Ma lui è ancora sensibile al dovere e all’onore e non capisce quella donna che gli ha stravolto la vita (bello e bravo Jonas Kaufmann in “La fleur que tu m’avais jetée”, ma sul registro più grave è come se gli si velasse la voce).
Eccoci al cuore dell’opera: Carmen è libertà, vita senza regole, nè eserciti, nè padroni: seguirla vorrebbe dire rinnegare tutto. Ma le circostanze – l’arrivo imprevisto del suo superiore con cui dovrà duellare – lo incastrano: dovrà andarsene con Carmen e il suo popolo di irregolari, che inneggiando alla libertà sguainando possenti pugnali. Ha passato la linea, ha varcato il confine, cancellato la sua storia. Vedremo come andrà a finire. Ci ritroviamo più tardi per il bilancio finale.

(Massimo Bernardini)

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Recensione Terzo e Quarto Atto:

Cominciamo il rush finale ben disposti: abbiamo una nuova Carmen di 25 anni, un direttore che risveglia una Scala svogliata, una regista un po’ fissata ma che fa della sua ignoranza del teatro musicale una virtù. Basta per inoltraci nelle meraviglie sonore del secondo “entr’acte”, con quegli strani alberi astratti e insacchettati: “Solitudine completa e notte fonda”, dice il libretto.
Arrivano bimbi in coppola, gli alberi si muovono, ecco l’inno di questo strano popolo di irregolari estranei al potere (chiaramente i buoni, per Emma Dante).
Carmen provoca ancora José: lui pensa alla mamma lontana e lei lo disprezza, preferisce consultare le carte su cosa l’aspetta (questo raffinato trio Bizet lo pensò e musicò tutto da sé: nella novella di Merimée non c’era proprio). Però le carte dicono morte per la zingara Carmen, che fra croci e meridionalissime donne in nero intona un canto bellissimo di consapevole malinconia (Anita bravissima anche lì).
Per fortuna è già tempo del meraviglioso pezzo d’insieme “Quant au douanier”, scrittura inventiva, colori variopinti, voci squillanti e orchestra perfetta. Ma arriva Micaela, la santa rivale tutta-casa-e-chiesa e la regista insiste: prete e chierichetti la seguono persino fra i monti in cerca dell’amato (nel libretto invece è una imprecisata guida). Non basta: ecco un gruppo di prefiche nere e un povero Gesù crocefisso bianco insanguinato. Lei si affida al Signore per riportare alla ragione il fidanzato, la messinscena le attribuisce invece un peso ideologico che francamente sta tutto nella testa di Emma.
Meglio il duello mancato José-Escamillo (il francese di Schrott però non migliora) che finisce in un ironico addio di Escamillo a Carmen. La fidanzata-santa intanto rilancia, coi capelli ormai grigi, invecchiata di colpo di vent’anni, già in un immaginario letto di morte che sembra quello di Traviata, ma è in realtà è quello della mamma di José che sta morendo.
“Va pure con la chierichetta”, provoca ancora Carmen, e José alla fine cede in nome della madre, ma non prima di aver minacciato e insultato Carmen. Finirà male. Ma comincia invece meravigliosamente, quanto a musica, l’ultimo atto: legni e archi puntuti e convinti, da quel Barenboim che fa persino un po’ di melodramma (latino lo è: viene dall’Argentina).
Si parte un po’ alla San Giacomo di Compostela col maxi turibolo che oscilla in scena (naturalmente nel libretto è quella della corrida, dunque il turibolo non c’entra un fischio) . Tornano croce e prete, simbolica guida dei toreri maschilisti contro il toro-donna da infilzare – ma sarà poi così? O no? -. Il “Si tu m’aimes” di Carmen ed Escamillo è una pennellata struggente, un annuncio della tragedia imminente. Carmen è avvertita dalle amiche che José ha cattive intenzioni, ma la bella, forte Carmen, non si sottrae all’ultimo passo. Faccia a faccia con l’ormai folle José che la supplica di ripartire daccapo, Carmen non può mentire e lo rifiuta per l’ennesima volta. Non sarà mai sua, a costo anche della morte. Lo scaccia violentemente, lui tenta di violentarla e poi la uccide, di fronte alla solita congrega di preti e processioni. È il braccio armato di una intera cultura contro la donna.
Finale molto ideologico, femminista fuori tempo massimo, ma certo con l’eco delle tante violenze fatte in questi mesi a donne che rifiutavano l’oppressione maschile (questo forse ci sarebbe stato, nel libretto di Meilhac e Halevy).
Anita Rachvelishvili e Jonas Kaufmann badano all’Emma-Dante-pensiero ma soprattutto alle note di Bizet. Questo, alla fine, li fa con Daniel Barenboim veri trionfatori (Anita colpita in testa persino da un travolgente garofano), di una prima giovane e arrischiata, innovativa e anche un pò pretestuosa. Che infatti ha riservato a Emma Dante, nonostante l’esplicito sostegno di Barenboim, un dissenso rumoroso e molto evidente. Forse la quarantenne avanguardista palermitana, davvero infilzata dai booh, stasera avrà imparato qualcosa.

(Massimo Bernardini)