Maurizio Pollini, seduto al pianoforte sul palcoscenico della Scala, guarda in su e cerca in cielo le note, ne vorrebbe afferrare il suono puro, ritrovato dopo tanto suonare, dopo tanto cercare. È l’inizio de La tempesta di Beethoven: appena può si ferma e le contempla, le ferma a pieno pedale in un mare di armonici, come se fosse musica nata da un minuto. E poi, udite udite, gli scappa persino di cantare, di articolare un qualche mugolio, come se gli partisse dal cuore qualcosa di incontrollabile. Dov’è finito il maestro rigoroso e inflessibile, sarà una terza età alla Keith Jarrett – pianista cantore abituale – anche quella di Pollini?
Beethoven, si diceva: La tempesta. Fa di tutto per renderla d’oggi, anzi di ora, di questo momento: nasce adesso, di fronte a noi. Eppure quel poco di crine che resta dei radi riccioli di un tempo è ormai più bianco che grigio: il grande maestro è invecchiato. Vecchio Pollini? Eh, sì, Pollini ha sessantasette anni e non ce ne eravamo accorti, si è inoltrato nell’età ultima della vita, quella che è soprattutto del ritornare.
Eppure l’Allegretto de La tempesta lo affronta con la consueta energia, bassi potenti e canto perfetto, come gli urgesse qualcosa. Gli arpeggi sono cristallini, una festa di colori. E tanta chiarezza, la solita fantastica chiarezza. In chiusura si ferma d’improvviso, come il compositore prescrive.
L’Appassionata, poi, è magnificamente potente. Il canto dell’Andante con moto è sommo canto armonico, canto di accordo e di arcata, colonna, architrave. Sublime, semplice, ripetizione continua sempre più ricca e contrappuntata, variazioni sempre più belle di un nucleo elementare.
Ma dopo c’è Boulez, da sempre la scelta-manifesto di Pollini, la sua presa di posizione, il suo rifiuto di fare da sublime custode del museo della bellezza. La Seconda Sonata è ancora e sempre, a sessant’anni dalla sua nascita, esplorazione dei timbri e della forma, gesto intellettuale freddo come il ghiaccio, e anche dai più volenterosi fioccano colpi di tosse laddove pochi minuti fa non c’erano che respiri trattenuti.
Si impegna da una vita Pollini, a proteggere la “nuova” musica, e adesso che è anche invecchiata la fatica sembra più inutile che negli anni eroici, quando promuoverla era coraggio.
Ora scivola via come una abitudine, scotto da pagare per un Beethoven o uno Chopin suonati meravigliosamente dal grande maestro “un po’ fissato” col Novecento. Ma lui è l’unico che finge di non saperlo, e col suo amico Pierre continua a proporre nel mondo questi “pacchetti misti” del Progetto Pollini: Beethoven, Schumann, Bach, Mendelssohn e Chopin in cambio di Boulez, Stockhausen, Schönberg, Webern, Berg e Nono. Genere prendere o lasciare.
Uffa, uffa, l’avanguardia coi capelli bianchi è un nonsense. E caro maestro, non ci venga a raccontare che Boulez è ormai un classico. Se da mezzo secolo nessuno ha mai provato a cantarlo sotto la doccia un motivo ci sarà. Però almeno stasera alla Scala non chiude con la Sonata. I due bis sono Francia moderna ma più alla mano, quella di Debussy. Così il ritorno a casa è più dolce. Pollini lo sa, siamo certi che lo sa.