Sapete cosa abbiamo capito, dopo la trionfale trasferta scaligera dello splendido “Evgenij Onegin” firmato Bols’oj di Mosca? Che Pëtr Il’ic Cajkovskij ha dentro di sè un dolore profondo, irrisolto, struggente e che il suo grande talento per il teatro musicale – ah, l’emozione profonda suscitata anni fa dalla scoperta de “La dama di picche” – fa un po’ male al cuore. Così non abbiamo nessuna paura nel ripetere – i luoghi comuni spesso ci azzeccano – che i suoi meravigliosi temi musicali sono colmi di una tristezza palpabile e che i suoi personaggi sono la dimostrazione che la felicità non è raggiungibile.
La vita, per loro, è un avverso destino di fronte al quale sono impotenti. «L’abitudine viene mandata dal cielo al posto della felicità», precisa subito la vecchia nutrice di Tat’jana, la vera protagonista dell’opera, che ama non ricambiata l’arido Onegin. «La vita sarà generosa con me, non sono fatta per la tristezza» canta invece sua sorella Ol’ga, fidanzata di Lenskij, amico di Onegin. Ma anche lei non realizzerà il suo sogno: Onegin, per futili motivi, ucciderà in duello l’amico. Il sogno svanisce, la felicità con lui. Anni dopo Tat’jana e Onegin si rincontreranno e per un attimo la passione si riaccenderà. Ma lei ora è sposata, e stavolta decisa a non perdersi in un sogno d’amore. Onegin finirà per piangere il suo “destino miserabile”.
La fonte è il padre della moderna letteratura russa, Aleksandr Puskin, ma il suo Onegin è un romanzo in versi di ben diversa fattura. Puskin narra dal di fuori i suoi eroi, li descrive e un po’ ride di loro. Cajkovskij invece li prende sommamente sul serio, aggiungendovi il peso della propria tristezza. Ma che si fa musica di travolgente bellezza.
Il tema dei due fidanzati Ol’ga e Lenskij, per esempio: fresco, delizioso. E prima i due bellissimi cori popolari del rimpianto e della gioia. E la meravigliosa aria della lettera in cui Tat’jana si rivela ad Onegin, canto di un cuore avvinto e già malato: «Sei il mio angelo custode o un perfido tentatore?». Il secondo quadro si apre su una splendido coro femminile d’amore, pieno di luce e di dolcezza. I due si incontrano: lui ha letto la lettera di lei ma non vuole fidanzarsi. Non cerca la felicità, così il coro delle fanciulle in cerca di marito diventa un canto perduto.
La regia e le scene di Dmitri Tcherniakov sono asciutte, teatrali, cechoviane. Le luci eleganti (strehleriane!) illuminano il grande salotto ottocentesco che domina il palcoscenico. Da un’alta finestra il vento agita le verdi fronde degli alberi. Elementi essenziali, limpidi, chiari. E poi la suntuosa, raffinata musica della festa, col coro che sprizza felicità appena prima che tutto si sfasci: l’amicizia, il fidanzamento, la pace di quella piccola comunità persa nella campagna russa. Poi il quadro finale che si apre col tema struggente e stupendo del duello. «Una nebbia densa avvolge il futuro» canta malinconico Lenskij, ormai rassegnato a battersi col suo ex amico. Triste e bellissimo il duetto fra i duellanti, canto dell’amicizia perduta. Ma nel terzo atto – altro salotto, altro tavolone, ma immerso nel rosso della passione – tutto si rovescia: stavolta è Onegin a struggersi d’amore. Tat’jana è colpita profondamente ma sa che ormai tutto è perduto. La musica dice rimpianto e impossibilità: siamo tutti infelici, siamo tutti condannati. Tat’jana, pur nella tristezza, sa ormai governare la passione. «Ah, la felicità era così possibile, così vicina», cantano insieme pieni di rimpianto. Lui è travolto, lei soffre ma se ne va col marito. Onegin resta solo con la sua disperazione.
Compagnia splendida (la Tat’jana di Ekaterina Scerbacenko! Chissà come la faceva la Tebaldi alla Scala nel ’54…), coro e orchestra magicamente guidati da Alexandr Vedernikov, direttore musicale del Bol’soj. È la loro storia musicale, il loro capolavoro: quasi un testo di formazione, per gli artisti russi. Così quella malinconia commovente ti arriva – siano benedetti i sottotitoli – piena di profonda consapevolezza.
Ecco la sintesi dell’anima russa, forse non solo musicale: nostalgia e dolore, eterna mancanza. E luce solo dal sole del grande canto popolare.