400 volte. Come si fa ad essere per 400 volte Rigoletto ed essere ancora in forma, motivati, all’altezza? È il mistero Leo Nucci, il grande baritono verdiano che si è di nuovo messo in spalla la sua gobba – si fa per dire – per ritornare alla maschera del buffone, campanelli compresi, alla corte di Mantova.
A dirigerlo invece un debuttante scaligero, James Conlon, direttore dell’opera di Los Angeles. Poco Verdi nel curriculum, dunque niente routine e forse poca confidenza con la tradizione. Ma forse è meglio così. Questo Rigoletto, firmato Muti-Deflo-Frigerio-Squarciapino nel ’94, è un classico scaligero dell’ultimo ventennio variamente ripreso. Molto rinascimento, molto Mantova vera, monumentale, elegante, asciutta. Ma quando attacca “Questa o quella per me pari sono…” è Verdi e basta: duetti e contrappunti italiani, eleganze malinconiche, vocalità colma di finezze.
Irrompe Leo-Rigoletto, malalingua e folletto di corte: danze e maldicenze, albori di intrigo, il duca dongiovanni all’opera, la beffa al conte di Ceprano che Rigoletto alla fine pagherà duramente.
L’aria di Monterone ha un ostinato di archi insolito, con certi colori scuri che fanno potente il finale del primo quadro. La festa è finita, la macchinazione è all’opera: niente sarà più come prima.
Poi la notte, il tempo oscuro, l’altra faccia del buffone. Il colloquio col sicario Sparafucile, avvolto in un fraseggio lirico strepitoso e sottile (Conlon lo sente, gli dà accenti cameristici).
Ecco l’amarezza di Rigoletto, buffone a vita, condannato a non conoscere se non il pianto segreto, dannato dell’effimero. Eppure l’amarezza della maledizione ricevuta in cambio dei suoi lazzi lo inquieta.
Unica consolazione (qui Verdi ci regala il primo duetto che tutto rinnova) la figlia Gilda, acqua di fonte cristallina in una vita torbida e senza speranza. Rigoletto, scopriamo, ha un cuore, ha amato ed è stato riamato, nonostante la deformità. Ma ormai chi l’amò non è più, la figlia Gilda è l’unico fiore rimastogli. “Il mio universo è in te”, canta il suo cuore di padre, ed è un canto italiano intenso, meraviglioso.
Brava Elena Mosuc, superbo Nucci. Ma il duca dongiovanni, Stefano Secco, trama nell’ombra e insidia la fanciulla. Mellifluo la sta avvinghiando nelle sue spire: “È il sol dell’anima” è un’aria perfetta, flessuosa e seduttiva, cosicché Gilda ci casca mani e piedi. “Amiamoci, d’invidia agli uomini sarò per te”: il duetto si fa finezza indicibile e happening di reciproci gorgheggi. Ma mente il duca, si finge povero studente, la fanciulla è perduta.
È notte, la fanciulla invoca Il "Caro nome" e siamo già al cuore della tradizione: melodramma al quadrato, disteso in tutta la sua bellezza e tenerezza (ancora brava la Mosuc).
La notte continua, "Zitti zitti, cheti cheti" a corte attuano la vendetta-beffa verso Rigoletto: Il fiore è divelto, la figlia rapita mentre lui è bendato, e quando scoprirà tutto sarà atroce. Anche il duca, scoperto il rapimento che l’ha portata a corte, cambia registro.
Sono tutti prigionieri degli avvenimenti, sembra dirci Verdi, il grande maestro che domina i segreti del teatro e le trappole per descrivere le intermittenze del cuore di tutti noi. Il coro dei cortigiani racconta la bravata della fanciulla rapita, creduta amante e non figlia di Rigoletto, e il duca sembra atterrito. Poi è la volta di Rigoletto. Il geniale "La-ra-la-ra" escogitato da Verdi per descrivere il suo cuore affranto di fronte allo scherno dei cortigiani è colmo di malinconia e dolore.
E allo svelamento dell’equivoco ecco "Cortigiani, vil razza dannata", l’invettiva tesa e umanissima: Nucci perfetto, in ginocchio, in pieno scoramento: chiede pietà per sua figlia e siamo anche noi lì con lui, sentiamo in quel violoncello che l’accompagna la sua voce disarmata, che nulla chiede per sé. "Pietà, signori, pietà" è l’ultimo grido, che travolge, ancora una volta, la Scala tutta intera, dal loggione alla platea. Ed ecco apparire Gilda, eccoli insieme: due poveretti prigionieri di un mondo fatuo e dei suoi giochi.
Verdi qui ci rapisce, ci commuove. Nucci e Mosuc sono il suo strumento perfetto: è il momento della verità fra padre e figlia, il racconto del rapimento e dell’amore. Rigoletto è un fiume di lacrime, sono due canne al vento, e Conlon trova la misura giusta per concertarli, avvolgente e misurato e tuttavia perfetto nei colori, mai dozzinale.
Irrompe Monterone, vittima del duca, ma Rigoletto gli promette la sua "Vendetta, tremenda vendetta" nei confronti del duca.
La figlia lo implora, lui è irremovibile: si prepara il dramma finale. Conlon apre il sipario dell’ultimo atto con un colore di archi struggente, che corrisponde allo struggersi di padre e figlia. Eccoli, atterriti allo svelamento del vero sentire del Duca: "La donna è mobil", ma in lei è ritratto l’uomo rapace e inaffidabile, conquistatore per nulla, traditore congenito. Ha avvolto in un nuovo corteggiamento la sorella del sicario Sparafucile e Gilda sprofonda nello sconforto. "Bella figlia dell’amore" e Rigoletto freme di sdegno e desidera vendetta di fronte alla figlia così delusa e mortificata.
Il meraviglioso quartetto si dipana forse diseguale nelle carature vocali dei protagonisti, ma a vincere è ancora una volta la raffinata drammaturgia verdiana. Riparte la trama dell’assassinio.
Rigoletto vuole che Sparafucile uccida il Duca, c’è aria di tempesta anche in orchestra e coro (grande orchestratore, qui Verdi!). Ma la sorte provvederà diversamente. Sparafucile e la sorella disputano sull’assassinio del Duca, Gilda si offre a sorpresa come agnello sacrificale, così nel sacco pattuito il povero Rigoletto troverà la sua povera figlia.
Un’intero atto-capolavoro, orchestra fremente, quartetto vocale appropriato, direttore consapevole e convinto. Fino allo svelamento finale: Rigoletto atterrito e travolto, beffato e sconfitto, svuotato e annullato. Sente la voce del Duca ancora vivo e perde il lume della ragione: apre il sacco e il destino si squaderna: è sua figlia morente.
Nucci: "Non morir mio tesoro: pietade, mia colomba". Mosuc: "Per te dal ciel pregherò". Sono loro i signori della serata, loro e Verdi. James Conlon, l’Orchestra, il Coro, li hanno serviti al meglio. Scala sopraffina, Scala di grande tenuta, Scala che fa il suo dovere e onora la sua storia. E manda a casa il pubblico felice.