Torna “Simon Boccanegra” alla Scala, Verdi torna a casa. Baremboim è accolto tiepidamente, come se anche stasera volessero ripetere, ma con garbo, i dissensi della Prima. Non finirà allo stesso modo. Ma intanto sul sipario che si apre si staglia smagliante il tema degli archi: fresco diretto, suono limpido e puro. Ma è verdiano, cioè italiano, o tedesco? Teniamoci la domanda per Barenboim.
La stregante presenza del coro maschile nel prologo è la prima cifra di questo capolavoro. Sentitelo sulla morte di Maria, amante segreta del corsaro Simone: il Fiesco suo padre (un Ferruccio Furlanetto sempre all’altezza) è in lacrime e il coro è nascosto in scena: sembra un Requiem di commossa, religiosa intensità.
Poi la meraviglia del duetto Fiesco-Simone (Domingo baritono: che male c’è?), colmo di echi dolorosi fino al drammatico epilogo. La promessa sposa, Maria, è morta, la loro figlia illegittima che porta lo stesso nome è scomparsa, eppure in quella stessa notte il corsaro Simone-Domingo sarà scelto dal popolo come doge di Genova. Ecco Verdi fine indagatore del cuore, col suo ennesimo racconto del trionfo e del dolore, coi suoi personaggi complessi e spaccati a metà.
Verdi orchestratore sublime, con quell’ accompagnamento sghembo e modernissimo dei legni alla prima aria notturna di Maria (la Harteros sostituita più che egregiamente dalla voce sottile, ma consapevole di Ailyn Perez).
Atto primo, Amelia-Maria: "Vieni a mirar la cerula/ marina tremolante/ Là Genova torreggia/ sul talamo spumante": che sottigliezze strumentali nell’accompagnamento. Verdi del 1881, che rimaneggia l’amato Simone 25 anni dopo. Verdi riscoperto, Verdi imponente e sottile, raffinato, ma sempre popolare nel profondo. Prima un meraviglioso duetto maschile, poi Amelia-Maria e Placido-Simone: la sua storia triste ma raccontata fra sottigliezza e drammaticità. E alla fine l’agnizione padre-figlia: ma pulita, ben costruita, senza retorica.
Grande, umanissimo Verdi (Bernstein in un duetto di "West Side Story" vi ha rubato qualcosa) iI Verdi di Barenboim non avrà l’impeto di Muti ma ha un distacco raffinatissimo (quel finale d’atto sottilissimo con l’arpa!). E Il meraviglioso ostinato d’archi per la sommossa popolare… (stesso tema di un quaretto di Beethoven!).
L’amara e intensa perorazione verdiana sull’odio che domina la repubblica genovese è musicalmente autorevole, importante, sembra scritta – da Verdi, Piave e Boito – per l’Italia avvelenata di oggi: "Piango su voi, sul placido/ raggio del vostro clivo /là dove ivan germoglia/i l ramo dell’ulivo./ Piango sulla mendace/ festa dei vostri fior/ e vo gridando: pace!/ e vo gridando: amor!"
Tutti fa unire Verdi, solisti e coro, popolo intero: tutto s’acqueta e "un senso di patria carità" sembra davvero possibile.
Ma subito riesplode drammatica (lo stridore di ottoni!) la contraddizione. Proprio il colpevole Paolo Albiani, il doge incarica di indagare l’ingiustizia da lui compiuta. Tensione, forza, il coro che arriva al sussurro. Anche il monumentale, meraviglioso primo atto è al suo compimento. E qui abbiamo capito che Barenboim, verdiano o no, è davvero all’altezza, conosce la strada della vera commozione).
Parte il secondo atto e per lui sono ancora applausi e dissensi. Ma è difficile contestarne la sensibilità, italiana o tedesca che sia. Sbalza il personaggio di Gabriele Adorno (un buon Fabio Sartori) ingannato e travolto da inganno e gelosia dal "Cielo pietoso", con umanità e dolcezza. È anche furbo Verdi: sei lì che aspetti che Maria gli sveli che il calunniato Simon Boccanegra è il suo magnanimo padre, ma niente da fare.
Ti fa aspettare prima uno splendido duetto d’amore e poi un seguito drammatico e pieno di equivoci. Sempre la contraddizione: Maria ama il più acerrimo nemico del padre ritrovato, che accetterà di tutto pur di farla felice. Scuro è il colore verdiano mentre inavvertito Simone beve il veleno preparatogli dal cattivo. E poi l’intricato terzetto, di sentimenti e colori musicali, con cui si chiude il secondo atto, uno dei culmini dell’arte verdiana: mistero, contraddizione, finezza, dramma. Poi irrompe la realtà, la lotta, il dovere: i problemi personali vanno in secondo piano.
Ecco la struggente, commossa invocazione al mare di Simone morente. L’ultima brezza prima di morire. E la lotta si fa pace, nel dipanarsi potente e bellissimo del duetto fra Fiesco e Simone parenti ritrovati. Autorevoli e perfetti Furlanetto e Domingo, imbrigliati da un Barenboim ormai nato a Busseto.
Siamo al passo finale: Maria appena sposa ritrova, dopo il padre, il nonno. Ma il genitore, ultimo passo, deve lasciar fare al veleno e offrirsi vittima innocente per la felicità di tutti. Scuri i violoncelli, quasi spento il canto. Domingo chiede a Dio di offrire il suo "martiro che cangia le spine in fior". Eppure Il dolore di tutti qui è salvezza. Mesto e consapevole l’ultimo pezzo d’assieme: "Ogni letizia in terra/ è menzognero incanto/ d’interminato pianto/ fonte è l’umano cor".
Dolore è il frutto dell’uomo, dolore quello che ci aspetta, ma la musica dice che invece ci resta il canto. Simone l’agnello muore in letizia, in dolorosa letizia. Lo specchio ruota e lo vediamo morire dall’alto, circondato dai suoi cari e dal popolo tutto, orchestra e direttore compreso. Miracoloso Verdi: non c’è una nota, in questi tre atti, che non sia un gesto di misteriosa bellezza.