La Scala si rinnova, la Scala va in cerca del nuovo. E incontra, in questa ostinata ricerca, La Fura dels Baus, compagnia di mitici avanguardisti catalani che da più di trent’anni popola di invenzioni la scena contemporanea. Così anche il “vecchio” Tannhäuser del giovane Richard Wagner -1845, qui alla Scala nell’ormai abituale versione parigina del 1861 – riparte daccapo e prova ad aggiornarsi. Ma almeno per l’intero primo atto è travolto dallo straripante, potente, travalicante immaginario visivo di Franc Aleu, sapiente video maker del gruppo.
Wagner ambienta la scena del giovane cantore in fuga dal mondo fra le braccia di Venere in una grotta, dove fra Grazie, Amorini, Naiadi, Sirene, Ninfe, Baccanti, Satiri e Fauni ne succedono di tutti i colori (parola di Wagner): «Gesti di voluttuosa ebbrezza… lussuria sempre più sfrenata… ardenti amplessi… irrefrenabile delirio… estrema follia dei sensi». Semaforo verde dunque per Aleu e la Fura di Carlus Padrissa, che danno vita sul palco a una mega istallazione porno che popola l’intero preludio e domina poi l’intero atto.
È di scena il piacere, in un video di attraenti corpi nudi intrecciati, allacciati, avvinghiati. E ancora sesso mimato, mosse da porno show in invisibili calzamaglie color carne, trapezi e corpi volanti, ginnici amplessi, bocche sensuali, tacchi a spillo, cosce spalancate e persino una piscina trasparente in scena con tanto di sexi nuoto sincronizzato. Fiamme sugli schermi, dominante il rosso. E nudità vere infine, corpi femminili (le tre Grazie?) agili e belli: fianchi affilati, seni perfetti, natiche sode: spettacolo per gli occhi insomma, se non fosse… se non fosse che a quel punto vorresti i Pink Floyd, con la loro irruenza di suoni sintetici, i bassi potenti e un volume molto più invasivo. E invece ti circonda la sottigliezza di quei meravigliosi suoni “artigianali” ottocenteschi (e sappiamo quanto l’orchestra wagneriana fosse ai suoi tempi considerata aggressiva) che paradossalmente sembrano poca cosa, di fronte all’onnipotenza delle immagini sui maxischermi.
La sproporzione del suono orchestrale di fronte a tanto apparato video è quasi imbarazzante. Chissà se gli artisti della Fura e lo stesso Zubin Mehta, che da direttore giustamente vuole innovare, se ne rendono conto. Ma intanto la nave di Tannhäuser va, in fuga dalla dea: «Fuggo l’eccesso della tua seduzione… Devo ritornare al mio mondo terrestre/ qui da te solo schiavo io posso diventare/ di libertà io sento il desiderio». La dea, con braccia da dea indiana fiammeggianti, ricorre a una leonardesca ruota volante veleggiante sul palcoscenico per un’ultima seduzione, ma il cantore Tannhäuser vuole tornare fra noi. Che intanto facciamo ordine nella visione: uno schermo-velo sta sulla bocca del palcoscenico e un altro megaschermo fa da fondale: in mezzo i cantanti, gli attori, l’azione. Enormi gocce d’acqua vagano come serpenti: effetti speciali degni di un film di fantascienza in 3D.
E altri dubbi ci assalgono: fin qui badavamo al generoso decolleté di Venere-Julia Gertseva o ai suoi difficili passi vocali (peraltro non perfettamente realizzati)? O ci distraevano le fantastiche riproduzioni mimiche dei sacri amplessi indiani fra dei? Tannhäuser intanto ce l’ha fatta. È bastato un “la mia grazia riposa in Maria”, la Madonna, e si è ritrovato nella fortezza del Wartburg, a primavera. Passano alcuni pellegrini in processione: il pellegrinaggio è cristiano, quaresimale, ma qui sembra di essere in riva al Gange, e se il coro profuma di antica pietà popolare (“A te, mio Gesù Cristo, mi incammino/ a te speranza d’ogni pellegrino. Lode alla vergine soave e pura/renda la via al peregrinar sicura”), i bellissimi, sgargianti costumi e le acconciature ci situano però fra la Mecca e Poona: perché questo paradosso?
Arriva il langravio di Turingia coi colleghi poeti di Tannhäuser: Wolfram, Walther, Biterolf, Reimar e Heinrich. Questi accolgono calorosamente il loro antico rivale e lo invitano ad una tenzone poetica. Tannhäuser accetta nel nome della sua Beatrice: Elisabeth, la nipote del langravio, che lo ha sempre aspettato. Siamo al meraviglioso duetto dell’amore ritrovato che apre il secondo atto. Anja Arteros è un’Elisabeth autorevole e sottile. Poi tutto è di nuovo stravolto: ecco un balletto stile Bollywood: ballerini e ballerine indiani colorati, moderni, ammiccanti. Ma che principe di Turingia e langravio: sembra di essere a Calcutta, anzi, ad "Oh! Calcutta!", spettacolo mito dell’hyppismo trsgressivo anni 70. Colori violenti e piacevoli, mosse simpatiche e accattivanti.
Insomma, con queste trovate Wagner lo si perde un po’ per strada, e ci si ritrova alla bellezza del magico quintetto finale dell’invito al pentimento – dopo che Tannhäuser nella gara fra i cantori è ricascato nell’amore carnale – un po’ straniti. Ma rieccolo, Wagner: una strepitosa linea di archi introduce la prima scena del Terzo atto, e l’apparato video è finalmente perfetto, con la mestizia di quelle foglie autunnali che volteggiano nell’aria. Si aspettano i pellegrini da Roma, si spera che Tannhäuser sia con loro. Elisabeth offre la sua vita alla Madonna in cambio della redenzione del cantore, Tannhäuser, dopo che Il Papa gli ha negato l’assoluzione, disperato vuole tornare da Venere.
Ma ecco la piscina delle lacrime salvatrici di Elisabeth: un’invenzione iperrealista e davvero acquatica, con quei meravigliosi occhi piangenti in video alle spalle e le due cascate frontali. Elisabeth dà la sua vita perché il cantore si salvi e se ne va nella macchina leonardesca diventata astronave. Tannhäuser è redento grazie al suo sacrificio. Wagner è salvo, dopo un viaggio a tratti troppo spericolato. Il pubblico si è diviso, almeno quello della prima; nel resto delle repliche tutto è andato per il meglio. Ma forse quei wagneriani perplessi qualche ragione dalla loro ce l’avevano.