Come ci sentivamo avanti nel ’79, scoprendo la “Lulu” di Alban Berg finalmente completata da Cerha e firmata da Boulez e Chereau! Finalmente quella “musica degenerata”, eredità sofferta del maestro di “Wozzeck” discepolo del gran sovvertitore Schonberg e padre a sua volta di una dodecafonia “calda” ed espressiva, con tutta la sua carica eversiva arrivava alla Scala.
Veramente calore ed espressività allora erano categorie proibite: si guardava a quel primo Novecento della Scuola di Vienna coi rigori dei devoti all’arte “contemporanea”, disprezzatori di melodie, melodrammi e letture musicali meno che strutturaliste. Trent’anni dopo Lulu e i suoi “mostri privi d’anima” – così recita l’incipit del domatore nel Prologo – scritti “contro l’ipocrisia bigotta della Vienna post imperiale”, ci fanno meno effetto: la nostra è epoca di mostri della porta accanto, cocainomani pazzi che uccidono a morsi i bambini.
E forse proprio per questo la musica di Berg, coi suoi colori colmi di tragici ammiccamenti e sberleffi, ci sembra più nostra che mai. O meglio, c’è da distinguere. Ci sembra ormai consumato quello “sprachgesang” inaugurato dal “Pierrot lunaire” che non fa mai volare il cuore e rende incapaci di canticchiarne anche solo qualche frammento (solo nei pezzi d’insieme restiamo davvero rapiti); mentre ci fanno vibrare fin nel profondo quell’orchestra mezzo antica e mezzo jazz, quegli impasti di saxofoni, clarinetti, fagotti e ottoni che profumano di locali anni Trenta.
È più moderna “Lulu”, più raffinata di “Wozzeck” (quanto vi hanno rubato Eisler e Brecht!), pulsa di una drammaticità distaccata, straniata che sentiamo attuale. Lo senti nei controcanti degli archi, nelle perle emergenti dal pianoforte, nella punteggiatura secca delle percussioni.
Berg ha scritto una sorta di colonna sonora per accompagnare il testo che ha tratto da Wedekind, una colonna sonora dalla potenza espressiva travolgente. Ce l’aveva insegnato per primo Sinopoli col suo struggentissimo “Wozzeck” che Berg è una sorta di Puccini avanzato e tedesco.
Anche Daniele Gatti segue questa strada, regalandoci struggimenti e intensità meravigliosi. Paradossalmente quello che ci sembra funzionare di meno, alla prova del tempo, è la storia stessa di "Lulu", che dovette sembrare scandalosa e improponibile al suo tempo (trovò posto solo a Zurigo nel ’37, morto l’autore da due anni) e oggi ci sembra un fumettaccio nero di quart’ordine. Lulu se la intende col pittore e fa morire di crepacuore il marito primario, poi si concede al vedovo Schon e a suo figlio Alwa finché il pittore disperato si uccide.
Lulu diventa artista di cabaret e un principe africano si innamora di lei, come accadrà alla contessa Geschwitz, all’atleta Rodrigo e a uno studente. Poi Lulu uccide Schon, che dopo averla sposata la voleva indurre al suicidio, viene processata e condannata ma riesce a fuggire travestita da Contessa, la quale nel frattempo le ha trasmesso il colera (!?).
La parte carceraria è riassunta in un film muto, mentre l’intrico si fa sempre più fitto: Lulu fugge a Parigi, è ricattata da un marchese, fa uccidere l’atleta Roderigo, scappa a Londra dove diventa prostituta, si concede a un negro che uccide Alwa, finché entra in scena Jack lo squartatore e uccide a sua volta Lulu e la contessa.
In questo succedersi di vicende raggelanti, Lulu (la precisa e gradevole Laura Aikin) e i suoi mirabolanti partner recitano cantando mentre l’orchestra scaligera (attenta ai colori e alle forme) mette in scena la vera drammaturgia dell’opera, fatta di impasti e di timbri.
Ci veniva da abbandonarci al suono puro e semplice, stasera alla Scala, e neanche per l’ordinata e tedeschissima regia di Peter Stein, quanto per il disinteresse che persino i sottotitoli tradotti suscitavano in noi.
Lo so che Berg ha macerato nota per nota ogni sillaba cantata e ogni suono in orchestra, lo so della "serie dodecafonica generativa" da cui Berg fa derivare le altre "serie interrelate" che definiscono Lulu e i gli altri personaggi, ma… la verità è che oggi la cosa non fa più effetto (e annoia anche un po’).
C’è ancora vita in Lulu? Sì, ma forse aveva già capito tutto lo stesso Berg, che dall’opera trasse quei "Synphonische Stucke" – eseguiti lui ancora vivo da Erich Kleiber a Berlino nel ’34 – che restano uno dei capolavori orchestrali del secolo scorso. Però questo, al pubblico obbiettivamente soddisfatto della Scala alla prima di stasera (soprattutto per il lavoro sul podio di Gatti e per Lulu) è meglio non dirlo. Lasciamogli la bella impressione di una serata importante e impegnata con l’avanguardia di tanti anni fa. Sono cose che fanno crescere in autostima.