Alla Scala, la Tetralogia di Richard Wagner non è che vada per la maggiore, diciamo la verità. L’ultimo a farla è stato Riccardo Muti a metà degli anni Novanta, ma è stata prima assente per tutti gli Ottanta (Milano da bere?), affidata a Sawallisch nei Settanta, firmata Cluytens nei Sessanta, memorabile nel ’50 col riabilitato Furtwangler e una sola volta messa in scena nei Quaranta, durante la guerra, nonostante l’Asse Roma-Berlino.
E parliamo, sempre, di un pugno di repliche a decennio e arrivederci a quello successivo. Niente tradizione, niente normalità: a Milano da settant’anni la “Tetra” non va oltre una ripresa a decennio. Ora è la volta di David Baremboim, che ci riprova ripartendo da un “Rheingold” in cui la Scala divide intelligentemente il rischio di impresa con Berlino e Anversa. Per regista e scenografo un neofita, il fiammingo Guy Cassiers, nessuna continuità col teatro d’opera di tradizione ma un bel curriculum di video-innovatore.
Però ad apertura di scena si canta la cantata anti-Bondi: “No al decreto, sì alla musica, sì alla cultura”. Artisti schierati in palcoscenico con striscione, comunicato bilingue fra applausi e dissensi. Democrazia di base d’antan, sembra un’opera di Nono… Bianco contro nero, nessuna sfumatura. Lo sperpero di denaro pubblico dei teatri lirici italiani è un corollario (ma la Scala è Italia nel mondo, una realtà a parte: va difesa e distinta).
Poi Wagner, finalmente. Il magma oscuro, l’impasto inziale di archi e ottoni da cui prende forma la mitologia del ciclo nibelungico: una spettacolare “loop” ad anello in Mi bemolle di ben 23 pagine di partitura che potrebbe non interrompersi mai, anticipatrice di tutti i musicisti ripetitivi che verranno quasi duecento anni dopo.
Poi il sottile gioco acquatico delle Ondine nel Walhalla, mentre beffano con arguzia Alberich, primo ladro dell’anello dei Nibelunghi, con tanto di video-installazione di rigore.
Bel teatro acquatico e belle voci per le tre ancelle del magico fiume. Tutti poggiano in due dita d’acqua in scena, l’anello rubato è parte di una moderna liturgia tipo… ”Singin’ in the rain”. Bello il videomagma marrone alle spalle, agili i danzatori della compagnia Eastman di Anversa diretti da Sidi Larbi Cherkaoui, ma saranno talmente presenti, da lì in avanti, da beccarsi alla fine una bella selva di “buu” dal loggione.
Ancora una volta Wagner: musica fantastica, canto sublime e interminabile (atto unico per oltre 2 ore e 40′!) che però regia e invenzioni drammaturgiche dovrebbero muovere e invece congelano. A che aiutano questi doppi coreografici dei personaggi visti già mille volte? E le fantastiche proiezioni di rocce in movimento, degne di una installazione di Bill Viola al Moma, sono davvero una marcia in più?
C’è uno sciupio di talento, di forze impiegate, di fantasie escogitate, che non riesce però a uscire dal microcosmo delle gallerie d’avanguardia alla moda. Anzi che sono un museo moderno e meraviglioso ma che "non si fanno teatro", non accompagnano lo spettatore. Splendide macchine, tecnologie perfette, fondali meravigliosi, ma la tremenda fissità della musica wagneriana non ne guadagna.
Oh bellezza, meravigliosamente noiosa bellezza che Hitler ebbe in dono nel ‘39, per i suoi 50 anni, mentre stava mettendo a ferro e fuoco l’Europa! (Ma quel manoscritto originale del “Rheingold” da allora non si sa più dove sia finito).
Splendide invenzioni, quelle di Cassiers e dei suoi pard Bagnoli, Van Steenbergen, Klerkx e D’Haeseleer, da contemplare astrattamente, ma che non aiutano lo spettatore a vivere la vicenda del furto dell’anello alle Ondine del Reno, dei fratelli giganti che si odiano appena ce l’hanno fra le mani, di Wotan anche lui stregato dal suo potere ma che a esso alla fine preferisce la nascita del Walhalla, nuova dimora degli dei.
Regista e direttore (ma questo è un Baremboim di serie A con un’orchestra scaligera di suprema qualità) la vicenda la danno per saputa, per nota, per già assimilata. Invece pensate per un attimo alla memoria reale di un teatro e di un pubblico come quello della Scala, che la vede in scena una volta a decennio per sei striminzite repliche ma senza che se ne sedimenti l’abitudine: non servirebbe qualcosa di meno bello ma di più didascalico, che serva d’aiuto?
Infine – ma ormai ci ripetiamo – la sublime (e un po’ malata) prolissità di Wagner, meravigliosa tortura per spiriti eletti. 160, 170 minuti di musica senza intervallo: un tempo che nel suo meraviglioso tedio non sembra dover mai finire. Invochi la grazia di una pausa (pensi anche ai mimi incollati ai loro personaggi per gli interminabili minuti di un’assolo o di un infinito duetto) ma non arriva.
Wagner è così: o lo si ama o lo si patisce. "M’immagino che un giorno la scienza troverà nei flutti mossi dal Rheingold alcuni rapporti segreti legati all’ordine del mondo". Ma questo era zio Adolf e per fortuna nessuno gli dà più retta.