Pur funestato dagli scioperi, ridotti a offensiva sindacale sul “regolamento attuativo” (!?) dell'”odiata” legge ormai in vigore perché votata dai due rami delle camere, “Faust” alla fine ce l’ha fatta. Eccoli gli angeli neri di Nekrosius il lituano, ecco il dottore-scienziato che compulsa un mare di libri, solleva pietre senza riuscirci, dubita delle sue ricerche sulla natura e sul Creatore.

“Io non vedo nulla, io non so nulla”, arriva a invocare la morte però la gioia della primavera incipiente l’attira. Ma visto che per il popolo è un regalo di Dio, Faust a quel punto si arrabbia ancora di più e invoca Satana. Eccolo servito: Mefistofele entra in scena, armato di una misteriosa pertica. “Accontenterò il tuo capriccio” di tornar giovane, gli assicura, ma il costo, sia chiaro, sarà la sua anima. Vendutala appare a Faust una Margherita dai lunghi capelli rossi, danzante e zampettante.

Lo scienziato a quel punto si fa fauno, veste da rockstar, torna ventenne. “Ardente jeunesse”, ardente giovinezza, cantano lui e Mefistofele. Poi irrompono ballo e coro (siamo in un grand operà) ed ecco una prima scena di massa tutta allegria, umori popolari, festa. È la festa dei buoni, dei credenti, dei soldati in partenza per salvare la patria (coincidenza scaligera strana: la primavera del 1859, anno di nascita della partitura di Gounod, è anche l’anno della II guerra di Indipendenza, quella di San Martino e Solferino, che porterà grazie ai francesi proprio all’annessione della Lombardia).

Circondato dai commilitoni Valentin, nobile soldato, si mostra preoccupato di lasciare senza protezione la sorella Margherita mentre sarà via per la guerra. Meraviglioso qui Nekrosius, regista popolare, moderno e colorato, servito dagli originalissimi costumi folk-postmoderni di Nazeda Gutiajeva. Finalmente alla Scala un teatrante all’altezza, che sa di scena e sa muovere la scena. Troppi simboli, troppo Faust archetipico, troppo Goethe ben oltre la semplicità di Gounod? Fa niente, il contesto è quello giusto.

 

Però, nell’inoltrarsi del cammino alla conquista della bella Margie sedotta alla fine grazie ai soliti gioielli, il nostro Faust, Marcello Giordani, perde qualche colpo. In "Salut! Demeure chaste e pure" tiene a fatica l’intonazione, e il colore sottile di Gounod lascia il posto agli stenti. Per fortuna c’è la rossa Margherita di Irina Lungu, voce scura e sottile, immagine della purezza. Peccato basti un baule di pietre preziose a perderla (si guarda alla specchio ingioiellata e si sente una principessa) e a gettarla fra le braccia di un prima timido poi assatanato Faust. Mica ne ha colpa, però. È lui, il raffinato Mefisto di Roberto Scandiuzzi a spingerla nell’abisso del peccato (nel frattempo si concede una splendida scena di seduzione parallela che precede un prezioso quartetto amoroso con surreali mostri alla Frankestein di contorno).

Poi, issata su una pertica, la culla frutto del peccato è già scandalo e anticipo di quello che accadrà. Margherita peccatrice perde i rossi capelli, si fa penitente in chiesa ma Mefisto non le lascia requie, l’assedia con le sue legioni di demoni-freak. Teatro mosso, teatro vero, coreografie horror ben concertate ed agite. Gounod qui è chiesastico e potente, drammatico e moderno. Margherita è pentita dei suoi peccati, ma ormai è ridotta a uno straccio. Intanto (bellissimo ensemble corale e portentosa trasformazione di scena), è tornato dalla guerra suo fratello Valentin con un drappello di soldati. Nulla sa dell’accaduto, spera nella pace ritrovata della famiglia.

Mefisto intanto ha l’aria sua più bella di tutta l’opera, "Vous qui faites l’endormie", con la solita pertica che si fa piano d’appoggio. Poi scoppia la tragedia. Valentin scopre il disonore della sua casa, sfida a duello Faust e ne è ferito a morte (facile, ha dalla sua Mefisto…). Non prima però d’aver maledetto la sorella traviata, fra soluzioni teatrali efficaci e semplicissime (una corda rossa a simboleggiare il sangue, per esempio) che colorano ed elettrizzano la scena scaligera come si è visto assai di rado. E qui vanno citate le strepitose scene e luci rispettivamente di Markus Nekrosius e Marco Filibeck.

Siamo all’epilogo, all’ultimo atto. Prima il sabba finale, festa pagana che Nekrosius colora di immaginario tradizionale e insieme pop, poi Faust che persegue l’umiliata e ormai vinta Margherita. La ritroveremo nel quadro finale ormai pazza e in catene, giudicata da tutti infanticida e assassina. Eppure, in un ultimo guizzo, ripudia Faust e Mefistofele e implora il perdono di Dio. .

 

Faust ne è finalmente commosso e si inginocchia a sua volta, finché dal cielo la spada luminosa dell’arcangelo, dopo un imponente "Christ est ressuscité", fulmina finalmente Satanasso-Mefistofele (niente spada celeste però: Nekrosius lo priva solo della famosa pertica).

Strana opera, "Faust". Verdi l’accusava di non avere "fibra drammatica", e forse effettivamente ce n’è di più nel "Mefistofele" del suo amico e collaboratore Arrigo Boito. Eppure è l’opera della vita di Charles Gounod, quella che ha reso il suo nome imperituro. Ascoltandola non si grida mai al miracolo, nessuna aria è veramente memorabile, ma la partitura ha una sua compattezza efficace ed elegante.

Ben resa dal direttore Stéphane Denève, guida puntuale di un’orchestra scaligera – scioperi permettendo – abbastanza convinta. La scoperta vera, per il teatro milanese, si chiama Eimuntas Nekrosius, teatrante di vaglia, moderno, rispettoso delle necessità della musica, cui ci piacerebbe vedere affidati snodi più decisivi della stagione. Intanto ha messo lì un "Faust" che, siamo certi, è già patrimonio duraturo del teatro.